Sulla Rete si diffondono le ipotesi scientifiche più avventurose e scarsamente fondate. Il campo dell’autismo ne è pieno. Eccone una, presentata qui.:
«Cacciatori autistici – Al giorno d’oggi l’autismo costituisce una sfida per le persone che ne sono affette. Ma secondo una ricerca statunitense, l’autismo potrebbe aver rappresentato una caratteristica vantaggiosa tra i nostri antenati, quando si trattava di raccogliere cibo e cacciare, dovendo spesso restare soli ed in silenzio durante il foraggiamento.
Vantaggi funzionali – Quando si trattava di separarsi dal gruppo per seguire una preda, o raccogliere il cibo, l’autismo poteva fornire vantaggi notevoli, come per esempio un aumento della percezione spaziale, della concentrazione, e della memoria, tutte doti utilissime in un ambiente naturale. Quindi l’autore della ricerca, Jared Reser, dottorando al dipartimento di Psicologia della University of Southern California, ha ipotizzato che l’autismo sia stato trasmesso, almeno all’inizio della nostra evoluzione, come caratteristica vantaggiosa, che permetteva una resa migliore quando si trattava di ottenere cibo dall’ambiente naturale. In pratica, i soggetti autistici potevano rivelarsi dei cacciatori superiori alla media, grazie alle loro qualità ed alla loro superiore resistenza alla separazione dal gruppo durante il foraggiamento in solitario.
Fame e sete – La fame e la sete sono istinti che spingono i soggetti autistici a comportarsi in maniera compulsiva e causano attività ripetitive, secondo l’autore della ricerca. Questi comportamenti avrebbero permesso un miglior sviluppo delle abilità di caccia e raccolta necessarie alla sopravvivenza tra i nostri antenati, rendendoli quindi dei foraggiatori migliori. Oggi questi comportamenti vengono tenuti a bada, per esempio quando i genitori danno da mangiare ai figli autistici, e quindi i loro comportamenti vengono “distratti” dal bisogno di trovare cibo ed acqua, e vengono reindirizzati verso attività non sociali (per esempio ammucchiare blocchi di legno, o collezionare tappi di bottiglie).»
Bene, questa teoria, chiamiamola del “foraggiatore solitario”, presentata da Jared Reser, si può leggere qui integralmente (in inglese). Non sta assolutamente in piedi, perché cozza con quanto ci dice la primatologia circa il modo di cacciare delle scimmie (che avviene in gruppo). Inoltre, Reser non sembra avere la minima idea di quel che significa la caccia. Anzitutto, senza una cooperazione di gruppo, che implica un’alta socialità, capacità di imitazione e di intuizione della mente dell’altro, non si sarebbe mai passati alla caccia di animali grossi e pericolosi. E poi nell’autismo manca la capacità di comprendere l’intenzione altrui, e quindi anche l’intenzione di una preda piccola nel momento in cui tenta di sottrarsi alla cattura. L’autistico essendo mentalmente rigido, ogni modificazione e stranezza nel comportamento di una possibile preda porterebbe al fallimento della caccia. Inoltre, una caccia solitaria esclude la condivisione della preda, con tutto quel che comporta già negli scimpanzé bonobo in termini di sviluppo comportamentale. Insomma: l’autismo in termini evolutivi non costituisce affatto un vantaggio per la specie, e lo sforzo per vederlo in questi termini può essere spiegato solo come mascheratura scientifica di una posizione ideologica, che infatti emerge alla fine del testo di Reser: “Mostrare come l’autismo abbia una produttività ecologica e come esso esista ancor oggi a causa del suo successo nel passato indica che esso deve essere considerato non una malattia ma una condizione. Non dovrebbe essere pensato come qualcosa di cui vergognarsi, ma come qualcosa che rappresenta l’individualità, l’autodeterminazione e l’autonomia.” Mi chiedo quanti autistici abbia visto Reser. Mi chiedo se potrebbe scrivere questo dopo aver visto mio figlio e gli altri ospiti dell’Orto di San Francesco.
(Nella foto mio figlio Guido, al parco dello Storga. Completamente disinteressato agli animali, si diletta di strappare soffioni e lanciarli ripetitivamente in aria.)