Io sono speciale

21/05/2014

Cinque principi pratici che sono anche cinque obiettivi caratterizzano il programma descritto da questo libro, e sono esposti a p. 28:

1. conoscere il proprio autismo, comprenderlo ed essere in grado di spiegarselo;
2. essere in grado di descrivere gli effetti dell’autismo sul proprio funzionamento e sulla propria vita;
3. essere in grado di individuare, precisamente e concretamente, le situazioni difficili connesse al proprio autismo;
4. essere in grado di identificare strategie utilizzabili per gestire le situazioni difficili (oltre a nuove strategie e abilità che basta semplicemente insegnare);
5. essere in grado di dare all’autismo uno spazio nella propria immagine di sé, in modo da sviluppare e/o mantenere una buona autostima.

Uscito in Belgio nel 2010, pubblicato in Italia da Erickson nel 2013, Io sono speciale si rivolge essenzialmente alle persone con autismo a funzionamento medio-alto, alle loro famiglie, e a tutti quelli che lavorano a contatto con loro. Profondo conoscitore del funzionamento della mente autistica, su cui ha scritto due libri—Autistic Thinking. This is the Title (2001) e Autism as Context Blindness (2013)—, Peter Vermeulen si occupa qui dell’immagine e della conoscenza di sé delle persone con autismo, un tema su cui la ricerca non appare oggi molto impegnata. Quali sono i modi appropriati per parlare dell’autismo, per spiegarlo, alle persone che ce l’hanno? Se è vero che essere autistici comporta grandissime difficoltà in molti campi dell’esistenza, quali sono le informazioni sulla propria condizione che bisogna possedere per poter affrontare quelle difficoltà nel miglior modo possibile? Il libro espone il programma articolato e in fieri, un programma aperto continuamente integrato e sviluppato nelle sue parti, che l’ Autisme Centraal di Vermeulen sta conducendo da anni. È un manuale, corredato di un CD con 400 schede, e fondato su un metodo che Vermeulen chiama socratistico, ovvero il metodo socratico applicato all’autismo: come il maieuta di Socrate, chi intende aiutare la persona con autismo a conoscere se stessa, che si tratti di un bambino, di un adolescente o di un adulto, deve operare affinché quella specifica persona trovi in sé la risposta, in una prospettiva di autodeterminazione. Ovvero è necessario che l’autistico sia condotto a se stesso con mano leggera, rispettandolo profondamente, accettandolo per quello che è: una persona dalla mente diversa, che può essere aiutata a crescere fino ad autogovernarsi, in tutto o in parte. Il libro è molto più pratico che teorico, e contiene molte indicazioni che potranno rivelarsi assai utili in tutti gli ambienti frequentati dalla persona con autismo, se si tiene conto di quanto sia importante l’immagine di sé in tutti gli aspetti della vita quotidiana. Dal testo di Vermeulen emerge chiaramente come possa essere problematico anche il lavoro con autistici dal buon livello intellettivo, che pongono la questione del diritto al proprio tipo di mente (ad es. pp. 86-87), ma anche quanto forte sia il rischio di sopravvalutarne la comprensione, e quanto ci si debba mantenere coscienti del fatto che anche persone con autismo dal buon grado di autonomia rischiano sempre il blocco del pensiero e dell’azione (p. 241). 

 


The Autism Matrix

18/04/2014

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The Autism Matrix, di Gil Eyal et al. (Polity Press 2010) reca come sottotitolo The Social Origins of the Autism Epidemic. Ovvero le origini sociali dell’epidemia di autismo, quella che spinge molti a ricercarne le cause più varie, spesso senza alcun serio fondamento scientifico. Se infatti è vero che i numeri delle persone con diagnosi di autismo sono in grande crescita soprattutto nel mondo sviluppato, occorre secondo Eyal chiedersi non tanto perché oggi si facciano queste diagnosi, ma perché fino a pochi anni fa non si facessero. La questione è infatti prima di tutto sociale. Il discorso che il libro svolge è complesso e raffinato, e non cade mai in ingenuità né si fa imbrigliare da tesi precostituite, ma a seguito dell’analisi svolta alcuni elementi ne emergono con chiarezza, e anzitutto questo: non è che negli anni Quaranta, Cinquanta e Sessanta non si facessero diagnosi riguardanti la condizione mentale dei bambini. No, si facevano, e in gran quantità. Solo che semplicemente non erano diagnosi di autismo. L’etichetta diagnostica autismo non era in uso, o il suo uso era limitato, come per differenti motivi vollero gli stessi Kanner e Rimland (ad es. vedi p. 187), a poche situazioni ben definite. Quindi non vi erano soggetti autistici, ma vi erano molti altri malati di mente o ritardati, con variazioni nel tempo che potrebbero configurare diverse altre epidemie, come quelle di deficienza mentale degli anni Quaranta o di schizofrenia infantile negli anni Cinquanta. Nel 1948 negli USA 108.500 bambini mentalmente ritardati erano inseriti nell’educazione speciale. Nel 1966 erano diventati 540.000. Dunque, nel 1966, ripetiamo, 540.000 bambini negli USA venivano seguiti da programmi di educazione speciale in quanto in vario grado ritardati. La cifra è enorme, e interpella seriamente coloro che parlano di “epidemia di autismo in corso”, perché la fluttuazione dei significanti, con lo spostamento diagnostico e l’attribuzione di etichette varianti nel tempo, è un dato storico impressionante. 

 All’interno del libro di Eyal mi pare di poter individuare due cardini: il primo è la deistituzionalizzazione del ritardo mentale iniziata a metà degli anni Settanta, che ha comportato una immensa dislocazione culturale e pratica, rendendo possibile un nuovo ruolo, protagonistico, delle famiglie e il sorgere di nuove professionalità, alleate con le famiglie, al di fuori della psichiatria tradizionale. Lo svuotamento degli istituti come la prima formidabile scossa di terremoto cui sono seguite innumerevoli scosse di assestamento, fino alla nascita dello spettro autistico come entità onnivora. «L’autismo così è diventato proteiforme, un vasto spettro che ingloba forme multiple e molteplici gradi di severità, un ‘significante fluttuante’ che può essere molte cose contemporaneamente, che può indicare allo stesso tempo una cosa e il suo contrario: ritardo mentale profondo e abilità da quasi-genio, ipersensibilità e iposensibilità, distacco ed eccessivo attaccamento, assenza di emozioni ed esplosioni di ira.» ( pp. 24-25)
Il secondo cardine è il generale offuscamento dei confini: tra malattia mentale e ritardo mentale, tra medicina convenzionale e non-convenzionale, tra professionisti e genitori, ecc. Ma come il processo di istituzionalizzazione–che ha visto innumerevoli bambini rinchiusi tra quattro mura dopo essere stati allontanati dalla famiglia–fu un prodotto storico-culturale ed economico che non può essere pienamente compreso senza uno sguardo vasto (un’ottica puramente tecnico-psichiatrica sarebbe fuorviante), così anche la creazione dello spettro dell’autismo e le sue attuali polimorfiche manifestazioni possono essere davvero colte solo allargando la visione, e seguendo la via tracciata da Eyal in questo splendido libro, che dovrebbero leggere tutti coloro che discutono di autismo. Noticina finale: Nel 2007 in Inghilterra risultavano ricoverati in istituti 2.245 bambini. In Francia, la patria del lacanismo, 108.000. (p.62) Da noi non saprei dire.

 


Dialogo sull’autismo adulto

25/03/2014

VITALE locandina


Unstrange Minds

18/03/2014

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Roy Richard Grinker, figlio e nipote di psichiatri e psicoanalisti, e marito di una psichiatra, è un antropologo culturale, direttore dell’Institute for Ethnographic Research della George Washington University. Ed è anche il padre di Isabel, una ragazza autistica. Il suo libro Unstrange Minds (Basic Books 2007) è certamente uno dei più belli che io abbia letto sull’argomento autismo. È una storia familiare, una delle tante che ruotano intorno ad un figlio o ad una figlia con autismo, ma è anche una ricerca, ampia e interessante. Poiché Grinker è un antropologo, non può non osservare l’autismo anche come fenomeno culturale. Così egli si muove dall’Africa tribale all’India e alla Corea, scoprendo come il fenomeno dell’autismo si declini nei modi tipici di ogni società, e come l’aspetto culturale determini in modo impressionate non solo la condizione di vita delle famiglie delle persone con autismo, ma la realtà dell’autismo stesso. Non è assolutamente la stessa cosa essere autistici in un villaggio Zulu o a Città del Capo, in un villaggio nella giungla indiana o nella metropoli di Delhi, nelle colline della Corea o a Seoul: in genere la condizione di vita per gli autistici è migliore nelle zone rurali, fatta salva la pesante influenza della medicina e della magia tradizionali. Unstrange Minds è un testo che discende da una mente aperta, e chiede apertura mentale–una merce rara ovunque, e anche tra coloro che si occupano di autismo.
Grinker fornisce fin dall’inizio al lettore alcuni punti fermi. «Non si può osservare l’autismo sotto un microscopio o scoprirlo con un test di laboratorio. L’unica evidenza che abbiamo dell’autismo di qualcuno è il suo comportamento individuale. Vi è scarso accordo, perfino dentro una singola cultura, circa che cosa sia esattamente o come lo si debba trattare. Così, quando iniziamo ad andare in panico per l’aumento nella prevalenza di certe condizioni o disturbi è bene ricordare che la maggior parte delle diagnosi psichiatriche sono essenzialmente soltanto descrizioni e classificazioni basate sui comportamenti che determinati clinici hanno osservato e scelto di enfatizzare in un particolare punto nel tempo, ed essi possono anche riflettere i condizionamenti personali e culturali dei singoli clinici. La descrizione di un certo paziente da parte di un clinico, e di qui la diagnosi assegnata a quel paziente, può variare considerevolmente dalla descrizione dello stesso caso fornita da un altro clinico, anche quando entrambi i clinici appartengano alla medesima cultura. Variazioni molto più ampie nelle diagnosi si osservano nel passaggio tra culture differenti. Molte società, per esempio, non hanno nemmeno una parola per autismo, mentre in altre i sintomi dell’autismo non vengono pensati come anormali, ma piuttosto come divini o spirituali. » (pp. 2-3)
Come spiega a p. 11, Grinker osserva l’autismo come un fenomeno globale, e non soltanto come un disturbo neurobiologico ma come un gruppo di sintomi che sono diventati particolarmente significativi in tempi e luoghi determinati. Nel libro dunque non potevano mancare elementi di storia della sindrome, e vi sono belle pagine sulla vita di Kanner e di Asperger, non prive di umorismo e sottigliezza psicologica. Viene affrontata brillantemente la questione della supposta epidemia di autismo, giustamente posta in relazione al crollo delle diagnosi di ritardo mentale e alle modalità in cui, anzitutto negli USA, sono gestiti gli interventi assistenziali dei singoli Stati. Una ricerca storica in questo campo, unita ad una razionalizzazione nell’uso delle categorie di prevalenza e incidenza, mostra secondo Grinker come non vi siano i dati per parlare di epidemia di autismo: sono le categorie psichiatriche che si muovono, e il caso dell’isteria, un tempo male comune delle donne occidentali e oggi sparita come categoria diagnostica, dovrebbe rendercene edotti. L’autismo è una epidemia culturale. Rimangono forti pulsioni di massa, anche tra i genitori, e sono ben spiegabili: «Non so con certezza perché la gente resista tanto all’idea che l’autismo autentico possa essere rimasto numericamente stabile nel corso degli anni, e che non esista una reale epidemia. Forse la gente non vuole abbandonare la speranza che, se soltanto potessimo trovare la causa dell'”epidemia”, allora potremmo aiutare questi bambini. Potremmo eliminare le tossine, controllare e rendere affidabili le multinazionali, fare qualcosa per invertire la tendenza. Se non vi è alcuna reale epidemia, allora dovremmo ammettere che non vi è alcuno su cui riversare la colpa. Il desiderio della gente è comprensibile. Ma noi non possiamo trovare soluzioni reali se basiamo le nostre idee su false premesse e cattiva scienza» (p.172). Siamo perfettamente d’accordo: è la logica del capro espiatorio, cui sempre gli umani in difficoltà fanno ricorso. Ma il libro è ricchissimo di argomenti e personaggi, da leggere assolutamente.


A sé e agli altri

02/02/2014

Val

 Ormai è una verità stabilita: tra i ricoverati negli ospedali psichiatrici (morocomi, frenocomi, manicomi) dei tempi andati, una gran parte era costituita da disabili mentali, che oggi sarebbero inclusi nello spettro dell’autismo. Di questo elemento ogni ricerca che tocchi l’istituzione manicomiale deve tenere conto. Come ex veneziano e come padre di un ragazzo autistico a basso funzionamento sono stato invogliato alla lettura di A sé e agli altri, a cura di C. Russo, Michele Capararo ed Enrico Valtellina (Mimesis 2013). Storia della manicomializzazione dell’autismo e delle altre disabilità relazionali nelle cartelle cliniche di S. Servolo: il sottotitolo del libro è esplicativo, ma anche problematico. Si tratta di un testo complesso, di un tessuto di saggi di vari autori (9, di differente formazione) che hanno al centro la lettura di cartelle cliniche del manicomio di S. Servolo a Venezia, redatte in un ampio arco di anni. Cartelle talvolta ricche di informazioni, più spesso tristemente scarne, quasi vuote, ripetitive, comunicanti un sostanziale disinteresse dell’istituzione e di chi vi operava per l’altro, per il ricoverato, e per la sua sofferenza.
Un piccolo inciso personale. Ai miei ricordi veneziani degli anni Cinquanta e Sessanta appartengono espressioni allora ricorrenti sulla bocca della gente, anche per strada, frequentissime: «El vién fóra da S. Sèrvoło!» (viene fuori da S. Servolo!); «Te mando a S. Sèrvoło!» (ti mando a S. Servolo!) «Fate védar da Fàtovich!» (Fatti vedere da Fattovich!). Quest’ultimo, che diresse il manicomio veneziano maschile di S. Servolo e quello femminile di S. Clemente (siti in due diverse isole della laguna) in qualità di primario dal 1935 al 1969, godeva fama di individuo bizzarro, non meno matto dei matti sui quali usava ampiamente le pratiche della camicia di forza e dell’elettroshock. In quel tempo mio padre era segretario del consiglio provinciale, ed ogni tanto gli capitava di dover andare nell’isola insieme ad assessori e consiglieri. Il dott. Fattovich in quelle occasioni vi svolgeva il ruolo di anfitrione, a modo suo. Mi raccontò mio padre che una volta, essendo la delegazione provinciale invitata a pranzo, il dott. Fattovich la portò a visitare il gabinetto scientifico, ove si profuse in spiegazioni sui numerosi cervelli “anomali” conservati in formalina. Quando si assisero a tavola, la prima pietanza che fu servita agli ospiti perplessi, mentre Fattovich si sganasciava, furono cervella fritte. Un episodio altamente simbolico.

In realtà questo libro, A sé e agli altri, non è propriamente un libro sull’autismo misconosciuto, e nemmeno sulle disabilità relazionali fraintese e interpretate nei modi più diversi, con una sorta di frenesia nomenclatoria, sebbene l’autismo compaia in più luoghi e in più saggi. È un libro sulla psichiatria, sul suo complesso di inferiorità nei confronti degli altri saperi medici, sul suo procedere a tentoni, sul suo frequente adagiarsi nell’inerzia dei luoghi comuni socialmente condivisi e delle ideologie dominanti, sul suo sostanziale fallimento che ha seminato incommensurabili sofferenze. Questo fallimento traspare anche dal moltiplicarsi dei nomi assegnati alle malattie mentali, che si avvicendano in un rampollare inesauribile. Scrive Pietro Barbetta a p. 175 : «… il caos dell’inconscio psichiatrico può essere colto attraverso l’analisi dei significanti diagnostici. Immaginate una grande discarica, ove sono depositate tutte le parole che il discorso psichiatrico ha abbandonato. Ci avviciniamo alla discarica e troviamo parole che spuntano, riemergono secondo come muoviamo i rifiuti per cercare–come homeless, bricoleur, come cani randagi o ratti–qualcosa d’interessante. Ecco che spunta una parola, è già in superficie: oligofrenia. Attaccati per l’asse sintagmatico al suffisso si trovano frenastenia, frenopatia, schizofrenia, ebefrenia, frenetico, frenologia, freniatria, ecc., per l’asse paradigmatico: debolezza mentale, insufficienza, ritardo intellettivo, deficit, quoziente intellettivo, malformazione cognitiva, ecc.» (p. 175)
E l’autismo? Nell’insieme, questo libro è ostile ad ogni riduzionismo neuroscientifico e neurocognitivo, e in più modi sembra mettere in questione la stessa categoria diagnostica, oggi dilagante, di autismo. La sua impostazione fondamentalmente umanistica, che io apprezzo, mi sembra però sostanzialmente rifuggire da un vero confronto con le neuroscienze, confronto sul quale oggi si gioca tutto. Anche se è vero che il proprium del libro è l’intento di far risaltare la storia di San Servolo attraverso alcune vicende umane che lo hanno attraversato, è pur vero che quelle storie sono presentate come esemplari e su di esse ed intorno ad esse si articola una pluralità di discorsi che investono l’oggi della psichiatria. Vediamo solo qualche punto che potrebbe sollecitare l’interesse e la riflessione di chi di autismo si occupa, genitori compresi .

«Il proliferare delle diagnosi ha spinto a parlare di un’ “epidemia” di autismo mentre, come evidenziato da Roy Grinker (Grinker, 2007), Ian Hacking (Hacking, 2008) e Gil Eyal (Eyal & al., 2010), l’epidemia è di carattere culturale: è aumentata l’attenzione per la dimensione relazionale dell’esistenza, conseguentemente per le sue forme atipiche e patologiche. (…) Oggi la dimensione cognitiva è considerata un correlato dipendente dall’attitudine relazionale, il ritardo mentale è stato sussunto dall’autismo (gli allarmisti che invocano fondi per la ricerca sull’autismo a fronte dell’epidemia, non considerano come contestualmente sia venuto meno un numero corrispondente di persone diagnosticate per ritardo mentale).» (E. Valtellina, p. 8)

«… autismo non è un’entità clinica, una patologia individuabile per un’eziologia, ma il contenitore lessicale che raccoglie condizioni disparate, riunite per la comune manifestazione di forme atipiche dell’interazione in presenza.» (Valtellina, p. 9)

Non tutti i saggi del libro mi appaiono compiutamente perspicui. Alcuni, forse per le dimensioni ridotte in cui sono costretti, pongono qualche interrogativo sulla linea di pensiero che li fonda e percorre. Ad esempio quello, molto stimolante, di Andrèe Bella, Follia morale e modernità: la socializzazione impossibile, inizia citando Figure dell’autismo. Delle rappresentazioni in piena evoluzione di Ian Hacking, sostenendo che «parlando di autismo non ci troveremmo di fronte ad un continuum lineare unidimensionale, entro cui ci si può situare a fronte della maggiore o minore gravità dei sintomi, come suggerirebbe la metafora dello spettro, bensì di fronte ad uno spazio che può contenere e descrivere vari tipi di qualità, dimensioni e figure diverse che si interfacciano in modo complesso e multisfaccettato tra loro». E questa è oggi una questione fondamentale. E tuttavia, dopo un’apertura sull’autismo, Bella si sofferma sui casi, descritti nelle cartelle di S. Servolo, del sacerdote Giovanni Rampin (1818-1884) e dell’avventuriero professore di lingue Samuele Mendel(1831-1908). La follia morale (una diagnosi frequente ai loro tempi) di questi due interessanti personaggi non ha nulla a che fare con l’autismo, ma pone la stessa questione, quella delle tecniche di produzione della verità (p. 110). In effetti, vista la dimensione storica di transitorietà e di costruzione sociale di molte patologie psichiatriche c’è da chiedersi se tra cinquant’anni si parlerà ancora di autismo e di spettro autistico o se saranno sopravvenute nuove definizioni, nuove etichette e nuovi cataloghi. Secondo Bella «…l’autismo e la follia morale, in quanto disabilità relazionali, presentano le medesime questioni metafisiche ed epistemologiche in forme e realtà storiche molto diverse». (p.111)

Infine, mi sembra di dover richiamare quella che anche oggi è una prospettiva che, mutatis mutandis, incombe sulle famiglie: «L’assistenza familiare ai malati di mente venne sostenuta durante l’inchiesta sui manicomi italiani, condotta da Cesare Lombroso e Augusto Tamburini nel 1891 in vista di una futura riforma volta a far fronte allo stato di sostanziale degrado in cui versavano i manicomi italiani. […] Tra le problematiche ravvisate dall’inchiesta vi era quella dell’accumulo enorme e sempre crescente di pazzi; tra questi, quelli buoni, tranquilli e idioti, si sarebbero potuti collocare–secondo Lombroso e Tamburini–presso la propria o l’altrui famiglia dietro elargizione di sussidi.» (B. Catini, p. 53, nota 13).


Una notte ho sognato che parlavi

27/03/2013

Una notte ho sognato che parlavi. Così ho imparato a fare il padre di mio figlio autistico

Una notte ho sognato che parlavi (Mondadori 2013) si inserisce nella moltitudine crescente dei libri-testimonianza scritti da coloro che vivono insieme ad una persona autistica, che solitamente è il figlio o la figlia. Questi libri si collocano su diversi livelli di scrittura e di comprensione della problematica dell’autismo, ma il più delle volte appaiono viziati da un ottimismo che mi sembra forzato e ingiustificato, anche se ne comprendo bene la causa profonda, che è l’impossibilità di accettare l’idea che il dopo di noi di quella persona che amiamo tanto sarà difficile o molto difficile. Il libro di Gianluca Nicoletti è diverso: lo sguardo è quello di un padre affettuoso ma nello stesso tempo quello del lucido, disincantato e spesso sarcastico conduttore di Melog su Radio 24. Una notte ho sognato che parlavi racconta quella che è stata finora la vita di Tommy, il figlio autistico (a basso funzionamento, quasi del tutto averbale, ottanta chili di muscoli a 14 anni, che fra poco sarà un gigante forzuto), nella sua quotidianità e nel rapporto col padre. Nicoletti mette in luce le caratteristiche che fanno di suo figlio una persona unica, e nello stesso tempo lo apparentano a tanti altri ragazzi che vivono la sua medesima condizione: io vi ho ritrovato molti tratti di mio figlio Guido (anche lui in terza media), che mi appare un quasi-fratello di Tommy. La penna iridescente di Nicoletti crea un’opera godibilissima anche da chi dell’autismo sappia poco o nulla, che riceverà nel contempo una vera illuminazione su cosa significhi avere un autistico in famiglia, e su come questa presenza possa far deflagrare  i rapporti familiari. E  su come la vita dei genitori sia una battaglia infinita, nei casi peggiori una via crucis.

Mi sembra di poter sottolineare due aspetti: anzitutto questo libro è anche una biografia di Gianluca Nicoletti, la storia di 14 anni della sua vita segnati dalla relazione condizionante con Tommy. In secondo luogo, questo libro pone quello che per me è un problema fondamentale: quello dell’identità della persona con autismo e della ricezione sociale di questa identità. Il modo in cui una società affronta una malattia o una disabilità è infatti determinato dalla sua lettura della malattia o disabilità, ovvero dalla idea generale che ne ha, che permea la società stessa, e si riflette nei media con un gioco di specchi. Della persona con autismo, dunque, oggi l’immagine che circola è quella del Rain Man, della persona bizzarramente intelligentissima, cioè quella dell’autistico ad altissimo funzionamento o dell’Asperger. Si tratta di persone che hanno una mente differente, ma che con una serie di accorgimenti possono essere inserite a pieno titolo, anche produttivamente, nella società. Il figlio di Nicoletti e il mio, autistici a basso funzionamento, con fortissima disabilità intellettiva, per quanto pieni di vita e di forza saranno sempre incapaci di autonomia, e non svolgeranno mai un qualche ruolo produttivo. Questo abisso che sussiste all’interno della galassia autistica non viene in genere adeguatamente sottolineato, se ne parla poco. Il libro di Nicoletti, di contro, pone questo problema con forza: è come se esistessero due autismi, e forse bisognerebbe decidersi ad abbandonare la parola stessa autismo, trovandone altre, più precise e funzionali. Invece il mondo sembra andare nel senso opposto, e il DSM V farà sparire la categoria Asperger, annegando tutto nella categoria spettro autistico, nella quale rientreranno l’Asperger esperto di sistemi informatici e Guido che non raggiungerà mai il concetto del numero 4. Quella di autistico sta diventando, se non lo è già, un’etichetta socialmente disfunzionale. Il libro di Nicoletti è da leggere.


Le percezioni sensoriali nell’autismo e nella sindrome di Asperger

31/12/2012

Le percezioni sensoriali nell'autismo e nella sindrome di Asperger

Le percezioni sensoriali nell’autismo e nella sindrome di Asperger, di Olga Bogdashina, è pubblicato in Italia dalle edizioni uovonero (2011). Il titolo originale col sottotitolo è lungo ed eloquente: Sensory Perceptual Issues in Autism and Asperger Syndrome. Different Sensory Experiences – Different Perceptual World. Esperienze sensoriali differenti – mondo percettivo differente: questo è il dato essenziale, che fonda l’intera argomentazione del testo di Olga Bogdashina. Si tratta di un libro uscito nel 2003, e in questi 10 anni la ricerca sull’autismo ha realizzato grandi progressi, e tuttavia quel dato essenziale rimane: se è vero che le persone autistiche hanno esperienze sensoriali differenti da quelle dei neurotipici, e da questo deriva un loro mondo percettivo differente, e da questo conseguono comportamenti che ci appaiono insensati, e che poi vengono trattati a prescindere dalla comprensione di quel mondo, le problematiche rimarranno sempre gravi, e ciò che si otterrà sarà solo, eventualmente, una modifica della parte emersa dell’iceberg autismo, mentre la parte immersa e invisibile, la più grande, rimarrà intatta.
Un piccolo esempio soltanto: «Molti individui autistici hanno riferito di avere grosse difficoltà a tollerare luci fluorescenti, poiché sono in grado di vedere uno sfarfallamento con frequenza di 60 cicli al secondo. I problemi legati agli sfarfallii possono andare da un eccessivo affaticamento degli occhi al vedere una stanza “pulsare” (Grandin). Alcune persone riferiscono di sentirsi assonnare quando le luci fluorescenti sono accese.» (p. 70) In tutte le scuole italiane i nostri figli autistici hanno i loro banchi sotto belle luci al neon, magari in classi dove regnano disordine e rumore, e questo viene chiamato integrazione!

Il libro della Bogdashina offre una panoramica molto vasta e articolata delle problematiche sensoriali,  e dovrebbe costituire una lettura obbligatoria per tutti i neuropsichioatri italiani. Dal canto nostro, aderiamo totalmente a quanto l’autrice scrive nelle conclusioni (p. 193): «Poiché una qualche disfunzione sensoriale è presente in tutti gli individui con autismo, sarebbe utile ai genitori dei bambini autistici e ai professionisti che lavorano con questi bambini essere più informati sui problemi senso-percettivi che essi incontrano e sui possibili modi di aiutarli.
In ogni caso, dobbiamo smettere di tentare di renderli “normali” e di adattarli al nostro mondo. L’obiettivo di ogni intervento dovrebbe essere aiutare gli individui autistici ad affrontare i propri problemi e a imparare a funzionare nella comunità. Qualsiasi programma di trattamento o di terapia venga utilizzato non li renderà meno autistici. Un’accresciuta autoconsapevolezza può però portare a compensare meglio le proprie difficoltà, il che a sua volta può ridurre i sintomi e rendere l’autismo meno disabilitante.»


Lavorare con le famiglie dei bambini con autismo

19/11/2012

Ha come sottotitolo Guida per gli operatori, e tutti coloro che trattano professionalmente con bambini autistici e con le loro famiglie dovrebbero leggerlo e meditarlo, ma è ricchissimo di spunti utili anche ai familiari. Il libro di Cesarina Xaiz e Enrico Micheli Lavorare con le famiglie dei bambini con autismo (Erickson 2011) offre un approccio che è insieme scientifico e umanistico, di uno spessore che si ritrova soltanto nella scuola belga di Theo Peeters. Micheli è stato uno straordinario maestro, e questo testo è in qualche modo la sua eredità. Il principio che anima l’opera e la riflessione di Xaiz e Micheli è espresso da quel lavorare con del titolo: l’autismo è  una realtà straordinariamente complessa, e ogni trattamento parziale effettuato da professionisti in un compartimento stagno non è adeguato, e può essere controproducente. L’autismo non ha origine nella relazione, come una volta si pensava (e come molti purtroppo si ostinano a pensare), ma la influenza nel modo più pesante, anzitutto nella famiglia, con esiti che possono essere distruttivi. La sindrome non è pervasiva solo a livello della persona che ne è direttamente colpita, ma pervade ogni ambito di vita della famiglia, trasformandola potentemente. Di questo non si tiene ancora sufficientemente conto nell’opinione pubblica e purtroppo anche nei servizi socio-sanitari. Di questo Xaiz e Micheli sono invece assolutamente consapevoli. «Data la durezza della vita e del lavoro con bambini che presentano un disturbo complesso come l’autismo (…) è necessario che professionisti e genitori si sostengano emotivamente a vicenda, anche perché, insieme, possono meglio ottenere dalla comunità servizi adeguati per il trattamento dei bambini e per la qualità della vita degli adulti» (p. 27). L’importanza della gestione delle emozioni (dei genitori, di fratelli e sorelle, dei terapisti, ecc.) non sfugge agli autori del libro, che avanzano proposte e forniscono indicazioni illuminanti. Anche il ruolo attivo dei genitori come gruppo che agisce in quanto tale, e al cui interno trovano un possibile allentamento le terribili tensioni che la vita con un figlio autistico può innescare, viene enfatizzato e illustrato.

«Innanzitutto, la salute dell’intera famiglia è importantissima e non va sacrificata all’idea di fare tutto per guarire il bambino: nella scelta di tempi, modi e obiettivi vanno calcolate le risorse dei familiari. Le relazioni tra genitori e bambini, terapisti e genitori, sono osservabili e trattabili come parte della natura: la nostra epistemologia include tanto le scienze cognitivo-comportamentali quanto quelle sistemiche. Questo vuol dire non limitarsi alla cosiddetta «terapia comportamentale» per l’autismo, che può essere estremamente riduttiva: è necessaria al contrario l’esperienza clinica della psicoterapia cognitiva, comportamentale e dell’ottica sistemica. Strategie di coping, interventi antidepressivi, cura della relazione tra coniugi, interesse per gli altri componenti della famiglia sono necessari quanto il lavoro con il bambino autistico per incidere sul benessere del piccolo e della sua famiglia.» (p. 32)


Alleanza difficile e necessaria

29/10/2012

Leggo nella prefazione di Anna Maria Dalla Vecchia al libro di Cesarina Xaiz e Enrico Micheli Lavorare con le famiglie dei bambini con autismo (Erickson 2011): « (…) chi opera nei servizi pubblici può essere sollecitato a ripensare la propria organizzazione in un’ottica innovativa, soprattutto in termini di costruzione di alleanze, di empowerment, di crescita delle competenze dell’ambiente familiare e sociale, quindi con risultati a lungo termine di maggiore efficacia nell’intervento per il bambino e la sua famiglia. La creazione di una buona alleanza con i genitori nasce a partire dalla prima fase del loro incontro con gli operatori e i servizi, quella della formulazione e della comunicazione della diagnosi. Le testimonianze competenti e articolate dei genitori a tale riguardo sono esplicite e fanno riflettere.» (…) «Sicuramente questa è una trasformazione difficile, che implica ulteriori percorsi di formazione dei tecnici di tutte le professionalità. Ma si devono ancora superare culture obsolete che hanno creato una divisione, anziché un’alleanza, con le famiglie, e modelli organizzativi di servizi che sanciscono un’assurda scissione tra chi fa la diagnosi e chi, invece, il trattamento, con tutte le fratture culturali e temporali che ciò comporta.» (…) «Ma non si può tornare indietro: anche il migliore neuropsichiatra infantile, psicologo o terapista, capace di lavorare nel proprio ambulatorio con il bambino, spreca le proprie competenze se non riesce a collaborare con i genitori in modo efficace e utile alle problematiche reali della famiglia».


“Autismo”, di Theo Peeters

25/09/2012

Autismo. Orientamenti teorici e pratica educativa. Un approccio etico

Autismo. Dalla comprensione teorica alla pratica educativa, è un bel libro di Theo Peeters, ripubblicato nel 2009 in edizione ampliata e riveduta, e tradotto da S. Bandirali per le edizioni uovonero nel 2012. In questa edizione è stato inserito anche un capitolo scritto da Hilde De Clercq sulle percezioni sensoriali, un aspetto davvero importante nell’autismo, del quale solitamente ci si occupa abbastanza poco. Questo di Peeters è un testo che al lettore offre una possibilità di comprensione del fenomeno autismo quale raramente è offerta altrove, ed è anche un testo pervaso di umanesimo: dona apertura mentale ma anche la richiede. Inoltre, la categoria del rispetto per la sofferenza, la fragilità e l’alterità delle persone con autismo, che è una delle doti che Peeters richiede ai professionisti, implica una intelligenza nel procedere e una capacità di entrare nella mente dell’altro diverso senza fermarsi all’epifenomeno, che è purtroppo merce rara. Penso che un’attenta lettura di questo libro sia anche oggi una necessità per tutti quelli che vogliono occuparsi seriamente e umanamente di autismo. Mi limito a citare due brevi passaggi.

«…molti dei comportamenti stereotipati hanno una funzione chiara. Le persone con autismo vogliono creare sicurezza e prevedibilità per sfuggire e proteggersi dalle situazioni difficili, tenere lontana la paura, stimolarsi e ricevere ricompense. Vogliamo portar loro via tutto questo? Quale prezzo pagheremmo in termini umani? Molti giochi stereotipati, ovviamente, sono funzionali a un certo numero di caratteristiche fondamentali delle persone con autismo, sono conformi al loro stile cognitivo rigido, sono prevedibili e danno loro un senso di euforia. Inoltre possono essere una forma di ricompensa e non hanno bisogno di noi per questo. In altre parole, hanno diritto a questi giochi. Le terapie comportamentali tradizionali sono pensate per bambini con uno sviluppo tipico e non prendono in considerazione le peculiarità dei bambini con autismo.» (p. 212)

E questa è davvero fulminante: «Se il cane di Pavlov fosse stato autistico, i principi fondamentali del comportamentismo sarebbero diversi» (p.219)

Postilla. A pag. 15 ritrovo un’espressione a me cara: «L’autismo non è soltanto un problema educativo, ma anche politico: comprendere le strategie educative per aiutare le persone con autismo è giusto e corretto, ma per metterle in pratica sono necessari i mezzi adatti.» Ugualmente a p. 222: «Per questo sono necessarie molte risorse, e questa è una questione politica. La società deve essere preparata ad aiutare le persone più vulnerabili, mettendo a disposizione i mezzi necessari.»


Out Aut

11/04/2012

Il libro di Tiziano Gabrielli e Patrizia Cova Out Aut (sottotitolo: Manuale di Pratica Abilitativa dell’Autismo e Disturbi Evolutivi Globali dello Sviluppo Psicologico) – Primo Volume, Vannini 2010, presenta un serio limite, già evidente nel sottotitolo stesso: la farraginosità. La scrittura è pesante e faticosa, la stessa struttura del libro non agevola il lettore, che deve essere volonteroso, e superare l’impatto con le tortuosità e la collosità dello stile. Nonostante questo limite, Out Aut dovrebbe essere letto da tutti quelli che si interessano di autismo in Italia, e specialmente dai professionisti. Il testo di Gabrielli e Cova ha infatti un pregio che bilancia abbondantemente il difetto: svolge un discorso critico, mentre quasi tutto ciò che in Italia si pubblica sull’autismo non conosce questa dimensione. Poiché quasi tutto quello che si pubblica sull’autismo non è libero da interessi particolari, professionali, di scuola, istituzionali, ecc. Invece Gabrielli e Cova non soffrono di condizionamenti esterni alla loro volontà di comprendere l’autismo (a partire da quello del figlio), e combatterlo. Gabrielli ha una seria preparazione scientifica di base (essendo un medico odontoiatra) che si percepisce chiaramente nel rigore dell’impostazione, e Cova ha evidentemente una predisposizione all’insegnamento e all’abilitazione che le ha consentito di educare il figlio a casa. Il percorso intrafamiliare di Gabrielli, Cova e del figlio Jacopo è però solo la base da cui i due coniugi sono partiti per una comprensione dell’autismo approfondita, in grado di confrontarsi in modo altamente consapevole e critico con le grandi scuole interpretative e di abilitazione oggi dominanti.
In realtà, questo primo volume non è esattamente un manuale, anche se non vi mancano indicazioni pratiche. In esso prevale la dimensione del saggio, con una forte concentrazione su alcune idee fondamentali, la prima delle quali è la centralità della stereotipia – comportamento stereotipato all’interno della sindrome. Per G. e C. tutte le grandi scuole hanno trascurato e trascurano la stereotipia, in qualche modo la sottovalutano e la marginalizzano, mentre essa costituisce il cuore del problema dell’autismo. Anche gli stessi comportamenti-problema, che tanto sconvolgono le famiglie, e che richiamano l’attenzione dei professionisti sollecitando interpretazioni circa le cause scatenanti ecc., per G. e C. hanno una sola funzione: quella di consentire al soggetto autistico di rientrare nella dimensione per lui più gratificante: la condizione della stereotipia. Ragione per cui l’abilitazione deve puntare costantemente ad interrompere le stereotipie fornendo al soggetto autistico elementi stimolanti-interessanti, che lo possano allontanare – all’inizio magari per pochi secondi soltanto – dalla condizione patologica. Quello che continuamente nel libro viene chiamato affrancamento si può ottenere solo con una abilitazione che definirei strenua.

In molti passi del libro emergono prepotentemente le assurdità, le imprecisioni, le incertezze, le impotenze dei  trattamenti e delle “abilitazioni” offerte dal sistema socio-sanitario. Una situazione complessivamente disastrosa, come tutti sanno. La via dell’abilitazione in famiglia intrapresa dalla famiglia Gabrielli, fondata sull’idea (in sé giustissima) che l’abilitazione di una persona con autismo deve durare 24 ore al giorno, pone però, a mio modo di vedere, un grave problema: richiede un contesto particolare, che nella stragrande maggioranza dei casi non c’è e non potrà mai esserci: un padre preparato e impegnato, risorse economiche, una madre talentuosa e decisa a dedicare tutto l’impegno al figlio. Inoltre, come sempre accade in casi simili, si scorge il pericolo immanente della colpevolizzazione. Un tempo le madri soprattutto subivano l’insulto del sospetto di essere esse la causa dell’autismo del figlio (con l’oggettificazione del bambino di cui ancora blaterano i lacaniani), oggi la invece colpevolizzazione si situa prevalentemente a livello del non adeguato impegno abilitativo della famiglia (ma come? non ti sei venduto la casa per far fare le necessarie ore di ABA a tuo figlio? ma come? non ti sei dedicato anima e corpo in prima persona all’abilitazione del piccolo? ma che genitore sei? – o anche, peggio: non l’hai detossificato? non gli hai fatto fare l’iperbarica? bestia! hai tradito la tua missione di genitore). Gabrielli e Cova questo pericolo lo sfiorano soltanto, ma mette conto rilevare la tematica.

Gli spunti critici offerti da questo libro sono troppo numerosi per un post. Come il focus posto su quelli che vengono chiamati i motori. G. e C. sottolineano il pericolo che anche l’abilitazione venga in qualche modo a sottomettersi al patologico, assumendone la struttura di fondo, ad es. la tendenza alla ripetitività. Un pericolo da cui TEACCH e ABA non sono esenti. Nell’autismo infatti il patologico tende a colonizzare tutto.

«La proposta ripetuta più volte, sino ad ottenere la giusta risposta e la cui sequenza viene reiterata sino a sicurezza esecutiva, aumenta le probabilità di giungere all’esattezza, avvalendosi di rinforzi o premi, ma aiuta poco a pensare. La memorizzazione è povera o aggregata. Va benissimo all’inizio, quando la mente è ancora poco disponibile e molto disturbata dal disfunzionamento. Con il tempo l’abilitazione si deve aprire ad altro.» (p. 248, nota 33) Poiché la mente autistica è una mente «disfunzionale ma sicuramente meno “comportamentista” di quello che ci si aspetterebbe dai primissimi risultati, che sarebbe pertanto opportuno non gravare di orpelli procedurali che poi si dovranno comunque abbandonare (come infatti anticipa la necessità del fading dei prompt e dei rinforzi) in toto e non solamente in parte. La necessità di non aderire eccessivamente ad uno schema metodologico è importante nell’autismo. Bisogna aprire rapidamente la mente a diverse possibilità di sperimentare, seppur selezionate e rigorosamente valutate nella loro applicazione. Devo far funzionare più possibile la mente, una volta che ho interrotto il suo disfunzionare, anche se ho il dovere di procedere in modo ragionato e per singoli step. Non si deve pretendere troppo ma nemmeno bloccare le potenzialità intorno ad un dogma». (p. 249)


Genitori

15/01/2012

copertina di Apprendimento e cognizione nell' autismo

Nella gestione complessiva del problema autismo il ruolo dei genitori è fondamentale, a tutti i livelli. Se scrivessimo che questo elemento è stato ben compreso dal sistema socio-sanitario e da tutti i professionisti che si occupano della questione scriveremmo una sciocchezza. In uno dei primi libri sull’autismo che ho letto, Apprendimento e cognizione  nell’autismo, di Schopler e Mesibov, un testo del 1995, si trovano su questo punto dei concetti che sono stati riproposti in tutti questi anni da tutti i maggiori esperti del mondo, ma che trovano ancora scarsa e tepida accoglienza in Italia. Nel nostro Paese capita ancora che i genitori si sentano dire dal neuropsichiatra di turno «faccia la mamma», «faccia il papà», come se non lo facessero già, e come se i bisogni non fossero ben altri. In realtà «faccia la mamma» significa anzitutto  «non si impicci di ciò che non è di sua competenza, non invada il terreno del professionista». Dimenticando ovviamente che, se i genitori avessero lasciato tutto in mano ai professionisti, e le loro associazioni storiche non avessero combattuto le loro difficili battaglie, oggi saremmo ancora alla madre frigorifero e alle baggianate psicoanalitiche.

Ora, è evidente che i genitori devono essere coinvolti. Ma il coinvolgimento esige che essi devono anzitutto essere ascoltati, perché ogni persona con autismo è diversa dall’altra, e anche le famiglie lo sono tra loro. Ma su questo punto, come su altri, il nostro sistema è spaventosamente arretrato. Leggiamo in Schopler e Mesibov:

«Nell’educazione dei bambini autistici a livello prescolare è di importanza assoluta il coinvolgimento dei genitori nell’educazione e nello sviluppo dei figli» (p. 373). Importanza assoluta. Toglierei il prescolare, e di questa frase farei un’epigrafe da porre bene in vista in ogni neuropsichiatria, in ogni centro per l’autismo.


Sconfiggere l’autismo: una dannosa illusione (2)

03/12/2011

Defeating Autism: A Damaging DelusionQuelle del dott. Usman e del dott. Kelly sono due traiettorie che illustrano il percorso usuale che porta a diventare professionisti del DAN!. Qualcuno, come il dott. Usman, inizia come genitore preoccupato della salute e dei problemi di sviluppo del suo bambino. Sebbene non specializzati in alcuna disciplina direttamente coinvolta, essi trovano un aiuto nelle loro conoscenze generiche di base quando si tratta di esaminare la letteratura scientifica. I genitori-medici che trovano attraente l’approccio biomedico non ortodosso iniziano ad utilizzarlo coi propri figli. Incoraggiati dai risultati di questo approccio nella loro famiglia, essi ne mettono al corrente altri genitori, forse all’inizio in modo informale,  ma in seguito iniziano ad esaminare e trattare altri bambini come professionisti che svolgono attività privata. Anche se questi genitori-medici non potrebbero normalmente ricevere alcun incarico pubblico di occuparsi di bambini con autismo, tutto ciò che viene richiesto per essere accreditato come professionista DAN! è di partecipare ad un convegno DAN! e di trascorrere qualche ora con un altro professionista. Altri, come il dott. Kerry, hanno delle qualificazioni mediche (che possono essere state acquisite, come nel suo caso, nel lontano passato). Alcuni possono essere stati abilitati come osteopati, chiropratici, naturopati o nutrizionisti. Questi professionisti si sono dedicati al trattamento di bambini con autismo come estensione della loro pratica professionale precedente, scoprendo nel mondo dell’autismo una promettente opportunità di mercato. È raro che questi professionisti abbiano una specializzazione o un’esperienza pertinenti al campo dell’autismo. (pp. 4-5)


Sconfiggere l’autismo: una dannosa illusione (1)

01/12/2011

Defeating Autism: A Damaging Delusion

Defeating autism: a damaging delusion (Routledge 2009) è un libro che presenta una visione critica e razionale della questione generale dell’autismo e dei trattamenti che per esso vengono offerti. Michael Fitzpatrick, medico inglese e padre di una persona con autismo, analizza in particolare i nessi e le azioni e reazioni che  si sono sviluppati in questi anni tra associazioni di genitori e professionisti di varia provenienza e onestà intellettuale, originando il movimento biomedico, che promuove appunto la dannosa illusione di una sconfitta dell’autismo. L’analisi di Fitzpatrick è penetrante e ben argomentata, e molto interessante anche per i risvolti psicologici che pone in luce. Dal canto nostro, abbiamo sempre rilevato la presenza nel movimento biomedico del meccanismo del capro espiatorio,  ovvero della necessità di individuare uno o più responsabili umani del male che si patisce (in questo caso l’autismo del figlio), unito alla teoria della congiura, per cui chiunque rifiuti la tesi (che nessuna ricerca scientifica seria ha potuto supportare) di un legame tra vaccini e autismo è sottoposto a linciaggio, ritenuto servo di Big Pharma, ecc. Gli elementi ideologici alla base di DAN! & C., e la lontananza dalle procedure della scienza autentica (sempre fortemente autocritica e aperta al dibattito, mai divisa tra amici e nemici) sono esposti con chiarezza in questo libro, di cui sarebbe altamente auspicabile una traduzione italiana.

«Poiché le nuove campagne “per la sconfitta dell’autismo” sono ostili alle organizzazioni storiche dei genitori, che vengono considerate troppo strettamente legate alla visione scientifica ufficiale, le loro attività causano divisione. In aggiunta, il loro successo nel causare ansietà nella popolazione per ipotetici legami tra vaccinazioni e autismo ha abbassato la fiducia pubblica nei vaccini, portando ad una diminuzione del loro utilizzo e ad un aumentato rischio di ritorno di gravi malattie infettive. Ha portato anche ad una distrazione di importanti risorse pubbliche verso la ricerca di questi improbabili legami, mentre continuano ad essere trascurati i temi pressanti dell’educazione e e del sostegno sociale, dell’impiego e della casa. Per molti genitori che non condividono la fede biomedica – e per gli scienziati e i professionisti che ricercano fondi per linee di ricerca più promettenti – le campagne “per la sconfitta dell’autismo” sono responsabili di una distrazione di energie e risorse.» ( prefazione, xv-xvi)


Voci dal silenzio 3

26/10/2011

Il libro di Paola Molteni lascia al lettore una duplice impressione. Da un lato quella che sia ormai abbastanza chiaro cosa si dovrebbe fare per affrontare e gestire seriamente la questione dell’autismo, dall’altra quella di un’inerzia, di una lentezza delle istituzioni e dei servizi a tutti i livelli: per cui ancora le famiglie  sono lasciate sole col loro terribile problema, o ricevono un sostegno largamente inadeguato. Trovo che l’essenziale sia espresso a p. 40: «Si può uscire dall’incubo dell’autismo imparando a vivere in questa condizione. Senza sperare nel miracolo impossibile che il bambino guarisca ma aiutando quel piccolo a realizzare la sua persona “unica”, con i suoi peculiari punti di forza, motivazioni, inclinazioni e limiti, dolcezze e rifiuti.
Un obiettivo possibile solo se perseguito insieme ai genitori, i primi educatori dei propri figli, i veri esperti della loro quotidianità. Ecco perché è così importante che i terapeuti e i professionisti promuovano la formazione educativa di madri e padri e si affianchino a loro nel duro lavoro della riabilitazione.»

Proprio questo punto, la stretta connessione, il coordinamento e la collaborazione autentica e pervasiva tra istituzioni e famiglie è in realtà il problema più urgente. E qui ribadisco il mio chiodo fisso: occorre assolutamente che vi sia un intervento del legislatore che sani la situazione per cui a 18 anni, con l’uscita dalla gestione della neuropsichiatria, il soggetto autistico perde la diagnosi. Infatti da noi un soggetto che abbia ricevuto la diagnosi di autismo infantile, col passaggio alla psichiatria diventa ufficialmente uno schizofrenico, un epilettico, un affetto da disturbo bipolare e quant’altro. E la parola autismo sparisce. Ma se una parte dei soggetti autistici presenta comorbilità, il fattore fondamentale rimane l’autismo. La sparizione dell’autismo dalle diagnosi post diciottesimo anno significa la sparizione degli autistici e l’impossibilità di affrontare a livello generale, organizzativo e anzitutto legislativo il problema del percorso di vita umano di queste persone (e delle loro famiglie).