CI RISIAMO COL BOZZOLO.

18/12/2018

L'immagine può contenere: una o più persone

Fabio Brotto

Questa è una pagina del Sole 24 Ore del 9 dicembre scorso, che mi è capitato di leggere oggi. Si tratta di una inserzione pubblicitaria della Sacra Famiglia di Milano. Dove l’autismo è trattato da molto tempo, e dove operano famosi specialisti del campo, celebrità nel mondo dell’intervento comportamentale. Eppure, sì, ci risiamo. Qui si parla ancora dell’autismo in termini che definire “scientificamente poco fondati” significa trattenersi dall’usare forme di espressione più, diciamo, robuste. Cosa si legge in questa pagina dunque? Anzitutto questo, una definizione dell’autismo che da anni non sta più né in cielo né in terra ma solo nella testa di qualche psicanalista residuale: UNA IPERSENSIBILITA’ AL MONDO CHE INDUCE UNA FUGA IN UN BOZZOLO PERSONALE DENTRO IL QUALE SEMBRA IMPOSSIBILE ENTRARE. UNA GABBIA PER LUI E PER I GENITORI. Stupefacente, roba da non credere ai propri occhi. “Ipersensibilità al mondo”. Capite? Al mondo intero. Forse simile a quella di alcuni poeti malinconici e introspettivi? Ma dove siamo? Anni e decenni di scienza e ricerca sono passati invano? Ipersensibilità che “induce una fuga”. Vaghezza di concetti, termini semi-letterari che non comunicano nulla, se non un immenso problema: se la Sacra Famiglia è a questo punto, se si propone in questi termini, una quantità di tempo e di energie immisurabile è stata spesa invano, e le famiglie degli autistici hanno poco da sperare. Perché anche l’aggiunta finale, che dovrebbe essere propositiva, suona vaga e priva di sostanza, ed è del tutto incomprensibile al grosso pubblico. “Riuscire a vederlo prima, capirlo prima, comunicarlo prima, sono l’unico modo di ridurre la sofferenza”. Autismo come sofferenza, e basta? Non aggiungo parole, amen.


ABA fa male agli autistici?

29/04/2018

 

abacontroversy

Quando la parte più alta dello Spettro dell’Autismo parla, sarebbe bene ascoltarla, sempre. Ma non avviene spesso, e, cosa singolare, spesso non avviene da parte dei grandi esperti mondiali di autismo, che sono tutti neurotipici. Articoli come Does ABA harm Autistic People? di Shona Davison (che è autistica e madre di due autistici) potranno forse apparire sconcertanti a coloro che in Italia si battono per il benessere e i diritti delle persone con autismo. Mettono infatti sul banco degli accusati l’ABA (Applied behaviour analysis), cioè  quello che per molti è il principale, e di fatto l’unico disponibile trattamento scientificamente validato, o almeno quello più sicuro, che dà i migliori risultati e consente i più vistosi progressi: spesso l’unica ancora di salvezza per moltissime famiglie. Tuttavia, le tesi di Shona Davison non sono solo sue: appartengono all’ala militante della Self-Advocacy della comunità dell’autismo nei Paesi anglosassoni (dove soluzioni e problematiche emergono con anni di anticipo rispetto all’Italia). Sono tesi diffuse, e hanno un senso ben preciso. Sono state delineate anche in libri di grande successo, come NeuroTribes di Steve Silberman. Esse investono problemi generali e questioni che possono sembrare astratte e remote dalla vita quotidiana, mentre riguardano da vicino la natura stessa della nostra società e i suoi valori di fondo. Anche da questo articolo, come da una infinità di post, documenti e discorsi accessibili nel Web e prodotti da quelli che io definirò da qui in avanti autistici militanti, le persone autistiche sono concepite come una minoranza all’interno della società. Come i neri, ma soprattutto come gli omosessuali (ad alcuni dei quali, non a caso, ai suoi esordi si applicò l’ABA nell’intento di normalizzarli, ovvero di trasformarli in eterosessuali). Ogni minoranza può essere oppressa, ovvero si può usare la violenza in varie e spesso subdole forme, per normalizzarla. Si può cioè forzarla a perdere i suoi caratteri distintivi, quelli che la rendono tale qual è e vuole continuare ad essere. Gli autistici militanti non vedono l’autismo come una malattia e nemmeno come una condizione limitante, lo vedono come differenza: la persona autistica è soltanto una persona con un diverso tipo di mente. E ha il diritto di tenersela e di vivere secondo la propria natura. Di conseguenza, applicare tecniche comportamentali su un bambino autistico sperando di farlo fuoriuscire dallo Spettro  pone una grave questione etica, ampiamente sottovalutata in tutto il mondo, e in Italia totalmente ignorata (l’etica, si sa, non è il forte degli Italiani).

Alcune affermazioni di Shona Davison. «È possibile cambiare il comportamento mediante l’ABA, questo è sicuro – anche se non con l’efficacia che qualcuno pensa (vedi Dawson, 2004; Hassiotis et al., 2018, Hughes, 2008). Ma il punto non è questo. Noi dovremmo considerare se ci sia consentito cambiare il comportamento – che spesso è inoffensivo e spesso anche utile. Molto spesso il principale beneficiario del cambiamento non è la persona autistica, sono le persone intorno a lei. […] Mentre la società punta a questo obiettivo  – quello di renderci  ‘normali’ – i nostri diritti umani vengono violati. Puntare alla ‘normalità’ è un obiettivo non-etico, spesso è vano, e molti resoconti di prima mano mostrano che quando viene raggiunto è ad un prezzo troppo alto pagato dalla persona autistica. […] Cambiare il comportamento usando tecniche comportamentali non è particolarmente difficile. Forse dovremmo chiederci: ‘dobbiamo cambiare il comportamento?’; ‘chi beneficerà dal cambiamento?’; e ‘stiamo per cambiare il comportamento senza aver individuato la causa che ne sta alla radice?’.»

È evidente che, una volta affermato il diritto alla neurodiversità, il diritto di ogni tipo di mente ad essere quello che è, occorre affrontare tutte le conseguenze che necessariamente ne scaturiscono. Perché un conto è una mente differente, un conto è una mente disabile. Se è vero che si può pensare ad una disabilità relativa alle richieste dell’ambiente, così che la persona x, in presenza di determinate condizioni, può vivere felicemente la propria vita, come sembra fare Shona Davison, che è anche madre di due figli a loro volta autistici, è anche vero che esistono nello Spettro, nella sua parte medio-bassa, molte persone del tutto incapaci di provvedere anche alle minime necessità della vita, e incapaci di svolgere qualsiasi riflessione su di sé, anzitutto per mancanza di parole, perché sono averbali. Si conferma ancora, per l’ennesima volta, come la vastità dello Spettro annebbi le innumerevoli differenze e gradazioni al suo interno. Ma è proprio per questo, lo dice il padre di una persona autistica averbale, che bisogna prestare la massima attenzione alle parole delle persone come Shona. La quale invoca – e come non essere d’accordo?  – un approccio critico.

Sappiamo che Ivar Lovaas negli anni Settanta applicò un intervento comportamentale che oggi definiremmo barbaro o nazista a un bambino per estinguerne i comportamenti “da femminuccia” (Rekers and Lovaas, 1974). Le analogie con la lotta della comunità gay sono fortemente sentite e messe in rilievo dagli autistici militanti. Nella sua conclusione, che pone un interrogativo molto serio, e sul quale occorre ragionare, Shona Davison scrive che «molte persone possono vedere quanto sia non-etico usare l’ABA per insegnare alle persone gay a comportarsi come gli eterosessuali. Perché la stessa cosa è ritenuta accettabile per le persone autistiche? Non ho ancora ascoltato una risposta soddisfacente a questa domanda.» Rispondete, se potete.

 

 

 


Reagan, Nolan e l’autismo

21/04/2016

MichaelShaynePrivateDetectiveFino agli anni Sessanta del secolo scorso, il destino di tutte le persone con autismo grave nei Paesi occidentali era uno solo: il confinamento in un istituto fino alla fine dei loro giorni. In altre parole: il manicomio, o qualcosa di molto simile. Negli USA, come altrove, gli anni Settanta videro svilupparsi un potente moto di de-istituzionalizzazione, che ebbe come prime protagoniste le famiglie dei disabili, che lottarono per una modifica radicale del modo in cui fino allora era affrontato l’autismo. Questa lotta è punteggiata di eventi accidentali, e di episodi singolari. Uno, risalente al 1974, riguarda l’allora governatore della California Ronald Reagan e l’attore di Hollywood Lloyd Nolan. L’ho scoperto leggendo la storia dell’autismo narrata da John Donvan e Caren Zucker in In a Different Key.
Nel 1974 già alcuni Stati avevano fatto un salto di qualità nell’accoglienza dei bambini con autismo nel sistema scolastico, anche approvando leggi dedicate: in Maryland, Oklahoma, Nord Virginia, Texas cambiamenti sostanziali stavano avvenendo nella scuola. E anche in California gruppi organizzati di mamme di bambini autistici stavano facendo una campagna per ottenere dallo Stato un provvedimento per l’educazione dei loro figli. l provvedimento legislativo passò per entrambe le camere del parlamento californiano. Mancava solo la firma del governatore, notoriamente contrario a qualsiasi aumento della spesa pubblica: era molto probabile che Ronald Reagan, il cui mandato era alla fine, ponesse quindi il suo veto, anche perché aveva sempre sostenuto apertamente che uno dei settori in cui si spendeva troppo era quello scolastico, e con il nuovo Autism Education Bill lo Stato avrebbe dovuto sborsare ogni anno 3000 dollari in più per ogni allievo autistico.
Accidenti della storia. Harvey Lapin, padre di un ragazzino autistico e impegnato nell’associazione NSAC (National Society for Autistic Children), era un dentista di Los Angeles che tra i suoi pazienti annoverava molte star di Hollywood. Ed era diventato amico di Lloyd Nolan, un attore famoso e uno dei caratteristi più importanti della storia del cinema americano. Lapin era un liberal, Nolan invece era repubblicano, attivo anche nella raccolta di fondi per le campagne elettorali di Reagan. Nolan aveva avuto un figlio autistico, Jay, diagnosticato tale nel 1956, a tredici anni, e messo in un istituto, come si usava a quel tempo, istituto dove era morto  nel 1969, a 26 anni, per soffocamento durante il pranzo (un pericolo sempre incombente sugli autistici a basso funzionamento). L’attore aveva a lungo tenuto nascosto l’autismo del figlio, di cui non parlava mai, come non accennava mai alla sua morte. Ma da poco i colloqui con Harvey Lapin lo avevano cambiato profondamente, e nel 1973 aveva narrato la storia del figlio al Los Angeles Times, e testimoniato davanti al Congresso a sostegno della necessità di una legislazione a favore dell’autismo, che innanzitutto lo riconoscesse come disabilità. Successivamente, nello stesso anno, Nolan aveva partecipato come voce narrante al documentario televisivo sull’autismo Minority of One. Dunque, Harvey Lapin decise di andare insieme alla moglie a trovare Nolan a casa sua, per invitarlo a fare pressione sul suo amico Reagan affinché firmasse il provvedimento. Nolan telefonò all’ufficio del Governatore. E i coniugi Lapin udirono soltanto quello che diceva il loro amico.

“Vorrei parlare col governatore”.
Qualcuno deve aver chiesto chi lo desiderava.
“LLoyd Nolan”.
Dopo un minuto Nolan disse “Hello Ron”.
Dopo alcuni convenevoli, Nolan andò dritto alla questione: “So che tu sai che io avevo un figlio con autismo, che è morto”.
Reagan rispose qualcosa, Nolan tacque per un po’. Poi disse: “Non ho mai chiesto nulla a nessuno, ma tu sul tuo tavolo ora hai un provvedimento sull’educazione. Educazione per ragazzi che hanno quello che aveva mio figlio”. E dopo una pausa: “Se tu lo firmassi apprezzerei moltissimo il tuo gesto”.
La telefonata finì qui. Il 30 settembre 1974, ultimo giorno del suo mandato, Reagan firmò. E la storia dell’autismo fece un altro balzo in avanti.


Autismo a Treviso: c’è poco da ridere. | Autismo

06/10/2015

imagesRicevo al numero dell’associazione Autismo Treviso, di cui sono presidente, la chiamata di una signora straniera, che parla un discreto italiano. Telefonata drammatica. Chiama per conto di una sua amica, che l’italiano né lo parla né lo capisce. Mi espone, con grande fatica e pena, una situazione che conosco molto bene, perché è quella di tante famiglie che in questi anni si sono rivolte a me, trovandomi per caso in internet alla disperata ricerca di aiuto da parte di qualcuno, per avere una qualche indicazione, perché dalle loro ASL non avevano avuto nulla, o poco più che nulla. La signora straniera mi racconta della condizione disperata in cui versa la famiglia della sua amica. C’è un bambino autistico di 9 anni, che ha comportamenti molto problematici, spesso dirompenti, non dorme di notte, e ormai è più forte della madre, che non riesce più a controllarlo. La famiglia è disperata, non sa cosa fare e a chi rivolgersi. Totalmente abbandonata a se stessa. Ovviamente non sa che nel territorio dell’ULSS 9 di Treviso esiste un centro dedicato a queste problematiche, un centro della neuropsichiatria trevigiana, il centro Samarotto. Perché scrivo ovviamente? Perché da anni chiedo ai responsabili dell’ULSS 9 per quale motivo l’esistenza del centro sia tenuta così ben celata. Tanto celata che alcuni mesi fa ho constatato in prima persona che perfino il dott. Franco Moretto, dirigente dei Servizi Sociali della Regione Veneto, ne era completamente all’oscuro. Del resto da anni pongo altre due domande alla mia ULSS, senza mai ricevere una risposta sensata. La prima è: si potrebbero conoscere quali siano i criteri in base ai quali alcuni bambini con diagnosi di disturbo dello spettro autistico vengono presi in carico dal centro dedicato, mentre altri rimangono nei distretti, a farsi le solite ore inutili di psicomotricità? La seconda è: quali progetti ha l’ULSS per gli autistici che hanno terminato il loro percorso scolastico? Perché molte famiglie nei prossimi anni non accetteranno supinamente un totale abbandono da parte dei servizi, e attualmente in tutto il vasto territorio dell’ULSS 9 non esiste nemmeno un centro diurno specificamente pensato per le problematiche dei soggetti con autismo. Siamo ancora in alto mare, ma temo che i dirigenti della mia ULSS non se ne rendano affatto conto.

Source: Autismo a Treviso: c’è poco da ridere. | Autismo


Diagnosi aumentano, diagnosi calano

19/08/2015

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di Joshua A. Krisch

Prima del 1975 di autismo non si sentiva parlare: la diagnosi riguardava 1 soggetto su 5.000. Nel 2002 negli USA il numero delle diagnosi era schizzato a 1 su 150. Nel 2012 erano 1 su 68. I genitori disperati di volta in volta hanno accusato le scie degli aereigli OGM e i vaccini per l’impennata dei casi di autismo. Ma secondo un nuovo studio pubblicato nell’ American Journal of Medical Genetics sembra che la realtà sia molto diversa da quella prospettata dalle ultime teorie della cospirazione.
Ecco com’è andata. Prima del 1975 ogni anno i medici esaminavano migliaia di bambini che manifestavano segni di autismo – quel tipo di sintomi nello spettro dell’autismo che qualsiasi specialista attuale riconoscerebbe come tali. Ma allora i medici classificavano i bambini autistici semplicemente come “disabili intellettivi” o “affetti da disturbo dell’apprendimento”. Negli USA quei bambini a scuola ricevevano un trattamento speciale secondo lo Individuals with Disabilities Education Act, la stessa norma che riguarda gli autistici, ma non erano mai ufficialmente etichettati come autistici. Negli ultimi 15 anni la nostra comprensione dei Disturbi dello Spettro Autistico si è sensibilmente evoluta, e a causa di alcune recenti e controverse modifiche al Manuale Statistico e Diagnostico (DSM-V), sono stati diagnosticati come autistici più bambini che mai, perché ciò che costituisce l’autismo è stato ridefinito. Questo può ingannare i genitori, inducendoli a pensare che l’autismo stia realmente aumentando, anche se così non è. I Centers for Disease Control and Prevention lo sostengono da anni, ma finora non vi erano molti dati scientifici a supportare questa tesi. Così alcuni ricercatori hanno mappato il numero dei bambini che  hanno beneficiato dell’educazione speciale tra il 2000 e il 2010, e hanno trovato che mentre per tutto il decennio il numero complessivo dei bambini con bisogni speciali è rimasto costante, quello dei bambini con diagnosi di autismo è aumentato di cinque volte. Questo indica che l’aumento dei casi di autismo è dovuto ad uno spostamento nella classificazione, non rispecchia una crescita reale del numero di chi ha l’autismo. In altre parole, negli USA il numero delle persone con autismo è sempre più o meno lo stesso, solo che una volta non si usava l’etichetta autistico. Adesso che ne sappiamo di più, lo diagnostichiamo più spesso. “La diagnosi è molto complessa, e questo influenza la percezione della prevalenza dell’autismo e dei disturbi connessi” afferma Santhosh Girirajan, il professore di biochimica della Penn State University  che ha guidato la ricerca. “Ogni soggetto è differente, e come tale va trattato”.


La scuola per un normale autistico

15/07/2015

Questo articolo di Gianluca Nicoletti è molto interessante sotto diversi aspetti. Ne richiamerò qui due. Anzitutto è interessante perché fa risaltare ancora una volta la grande distanza che sempre esiste in Italia tra la validità dei princìpi, solennemente espressi dalle leggi, e la messa in atto degli stessi sul piano della vita quotidiana. L’inclusione scolastica delle persone con autismo, ad esempio, è uno dei campi in cui questa distanza è palpabile, in cui i soggetti autistici e le famiglie sperimentano massimamente la radicale estraneità tra la proclamazione e l’atto. Qui sta anche, e se non lo si capisce è meglio rinunciare a farsi interpreti dei bisogni delle persone autistiche, il motivo dello scarso entusiasmo con cui la stragrande maggioranza di coloro che vivono queste problematiche hanno accolto l’approvazione alla Camera del disegno di legge sull’autismo. Il loro scetticismo è razionalmente fondato, ma anzitutto è una pianta fatta crescere dall’esperienza di vita.
Il secondo aspetto è ancora più importante, e riguarda la comprensione generale di ciò che intendiamo quando diciamo autismo. Qui tocchiamo un tema su cui non cesserò di battere finché avrò fiato. L’ampiezza dello Spettro, infatti, fa sì che vi si comprendano persone che hanno caratteristiche e bisogni abissalmente lontani. Tra un autistico a basso funzionamento con capacità cognitive ridottissime ed un autistico ad altissimo funzionamento appassionato di matematica e in grado di fare l’università la lontananza è siderale, e le condizioni di vita e i destini non sono minimamente paragonabili. Anche nella scuola, ove il soggetto ad altissimo funzionamento, con tutti i problemi che potrà avere nella socializzazione e nei rapporti interpersonali, non finirà fuori della classe, non sarà relegato in una stanzetta, ecc. (Vi sarebbe qui da aprire poi un altro discorso: mio figlio Guido e altri come lui hanno assoluta necessità di disporre di un luogo appartato dove poter svolgere determinate attività, ecc.). Ma è evidente che il pericolo che corrono i genitori di persone autistiche è sempre anzitutto quello di vedere la sindrome attraverso il filtro della propria vita vissuta: e così in questo articolo di Nicoletti il normale autistico è un soggetto averbale. Ma questo è un arbitrio terminologico che, anche se detto con ironia, non possiamo accettare, perché comunque genera confusione. Purtroppo ilnormale autistico non esiste, i termini autistico e autismo ormai tendono a sprofondare in una nebulosa di insignificanza, per emergere dalla quale è urgente che le famiglie dei soggetti a basso funzionamento facciano risaltare con forza la differenza dei loro figli. Non è certo omologandoli agli Asperger che potremo costruire per loro un futuro non disumano.

La scuola per un normale autistico, di Gianluca Nicoletti

Ho incontrato Paola per strada, il suo ragazzo autistico Gabriele quest’anno è stato promosso agli esami di terza media. Paola in piedi sul marciapiede di Viale Mazzini,  con le spalle al muro in un bollente pomeriggio d’estate, è fiera del diploma del figlio.  Per lei è stato abbastanza umiliante vederlo alle prese con una commissione che nulla sapeva di lui, che non parla e che non scrive. A Gabriele è stato chiesto di firmare il verbale d’ esame, lui ha fatto tre linee aiutato dalla madre.

Paola ricorda anni desolati di vita scolastica, anni che Gabriele ha passato in una stanza invece che in classe, con insegnanti di sostegno non sempre all’ altezza della sua reale inclusione. Nella maggior parte dei casi persone che non avevano mai visto un autistico prima di lui, che non avevano nessuna cognizione di come trattarlo, coinvolgerlo, aiutarlo a costruirsi la sua dignità scolastica.

Cosa è stata per Gabriele finora la scuola? Un parcheggio, un luogo di passaggio, un’ ipocrisia perché si affermi un principio molto bello e sacrosanto come quello dell’inclusione, che però per gli autistici come Gabriele quasi mai corrisponde alla sua  reale applicazione.

Ora Gabriele sarà iscritto a un liceo, uno qualsiasi, scelto solo in base alla speranza che gli possa capitare come sostegno una ragazza molto brava e che la madre conosce, che è stata assegnata a quel liceo. Per Gabriele ci sarà ancora una stanza dove passerà il tempo con qualcuno che lo guarda a vista. Non è un caso eccezionale, la prassi è per lo più questa. Solo  quando si ha la fortuna di incontrare insegnanti che si sono formati per loro passione, e dirigenti scolastici particolarmente illuminati, accade il miracolo che un autistico possa anche sentirsi parte di una classe di suoi coetanei.

Ragazzi che naturalmente hanno un passo diverso, ma pur sempre ragazzi come lui e con i quali avrebbe diritto di stare assieme, partecipare alle attività non solo scolastiche, andare in gita, vivere la sua adolescenza. Quello che per tutti gli altri è garantito per noi autistici è un obiettivo sempre lontanissimo e difficile. Quello che per gli altri  genitori  è un documento da incorniciare, il primo attestato di autonomia del figlio che cresce, per noi autistici è un pezzo di carta che sembra burlarci con voti messi a caso.

Non racconta nulla  dell’autistico un criterio di giudizio pensato per lo studente neurotipico, noi autistici siamo invalutabili quanto indicibili. Una medaglia di cartone o un diploma del club di Topolino avrebbero forse più senso di un documento che ci viene dato solo per formalità, che non corrisponde agli  anni  evaporati  dietro al banco di una scuola.

via La scuola per un normale autistico – Alla fine qualcosa ci inventeremo.


Comunicato stampa ANGSA VENETO-AT

31/12/2014

ATangsa

Di fronte all’ennesimo episodio di trattamento inadeguato di un bambino autistico nella scuola, questa volta verificatosi in un istituto comprensivo di Mogliano Veneto e riportato dalla stampa locale, le associazioni ANGSA Veneto onlus e Autismo Treviso onlus ribadiscono quelli che dovrebbero essere dei punti ormai solidamente acquisiti, ma risultano invece ancora alquanto precari.
1. Per una buona inclusione dei bambini e ragazzi con autismo nella scuola è necessaria una convinta, attiva e aperta collaborazione delle famiglie. Una impostazione a compartimenti stagni è del tutto disfunzionale e improduttiva. Le famiglie sono portatrici di un sapere sul proprio figlio che deve essere per quanto possibile condiviso con la scuola, e il lavoro svolto a scuola deve essere fatto conoscere alla famiglia, ma ancor prima le sue linee devono essere costruite insieme nel PEI. “Sinergia” è un concetto fondamentale, che spesso però non trova attuazione, e da questa non attuazione discendono a catena molti problemi.
2. Gli insegnanti curricolari devono essere coinvolti, ai compagni di classe e al personale non docente devono essere fornite le conoscenze e le competenze sull’autismo che servono per una buona inclusione. Se necessario, anche l’ambiente deve essere modificato secondo le particolari esigenze del soggetto autistico. Fondamentale è anche l’apporto professionale della neuropsichiatria infantile.
3. L’insegnante di sostegno ed eventualmente anche l’assistente assegnati all’allievo con autismo devono essere specificamente formati. Non è possibile lavorare su una disabilità così impegnativa se si è privi di ogni conoscenza in materia di autismo. Invece spesso questo ancora avviene: a soggetti autistici vengono assegnati insegnanti di sostegno digiuni di ogni nozione specifica e privi di esperienza, con conseguenze che possono essere disastrose, sia per il bambino o ragazzo sia anche per chi lavora con lui, come dimostrano i casi di burn-out e i casi più gravi di trattamento inadeguato, maltrattamento e violenza.

Auspichiamo  che il bambino possa riprendere la frequenza della scuola materna con le condizioni descritte. Ci conforta che l’insegnante sia stata sospesa dall’incarico.

Ringraziamo le persone  che sono state solidali con la famiglia segnalando i comportamenti inadeguati dell’insegnante. Esprimiamo la nostra vicinanza alla famiglia.

Fabio Brotto (Presidente Autismo Treviso onlus)

Sonia Zen (Presidente di Angsa Veneto onlus)


Correggere la ricerca sull’autismo

19/12/2014

John Elder Robison

Di John Elder Robison

Negli ultimi anni sono state pubblicate migliaia di ricerche sull’autismo. Con numeri così alti, si potrebbe pensare che noi tutti stiamo esultando per un grande progresso. E tuttavia molte persone—specialmente adulti con autismo—sono frustrate dalla scarsità dei benefici che si sono materializzati. Perché?
La risposta è semplice: stiamo studiando le cose sbagliate. Noi stiamo gettando milioni nella ricerca di una “cura”, anche se ora sappiamo che l’autismo non è una malattia ma piuttosto una differenza neurologica, una differenza che rende disabili alcuni di noi mentre a pochi altri dona capacità straordinarie. Molti di noi vivono con un mix di doti superiori e di disabilità.
La ricerca sulle cause genetiche e biologiche dell’autismo ha sicuramente un grande valore, ma è un’impresa a lungo termine. Il tempo che va dalla scoperta allo sviluppo di una terapia approvata dalla comunità scientifica si misura in decenni, mentre la comunità dell’autismo ha bisogno di aiuto subito.
Se noi accettiamo l’idea che le persone autistiche non sono ammalate ma neurologicamente differenti, l’obiettivo della ricerca cambia: da trovare una cura ad aiutare noi a conseguire la nostra migliore qualità di vita.
Ecco alcuni modi per farlo:
Possiamo intervenire sulle condizioni invalidanti che accompagnano l’autismo: ansia, depressione, epilessia, disturbi del sonno, problemi intestinali sono quelli più frequenti, ma ve ne sono altri.
Possiamo aiutare le persone autistiche ad organizzare la loro esistenza, a pianificare i loro orari, e a regolarsi in presenza di sovraccarico sensoriale. Molte delle cose che noi richiediamo—come spazi tranquilli e illuminazione non fastidiosa—sono confortevoli per tutti, ma per noi sono essenziali.
Possiamo offrire soluzioni tecnologiche per le cose che le persone autistiche non possono fare naturalmente. Qualche autistico non verbale riesce a comunicare con tablet, altri dialogano con un’assistente digitale come Siri. Ora stiamo vedendo macchine che leggono le espressioni anche quando noi non siamo in grado di farlo. I computer possono migliorare la qualità della vita di chiunque, ma noi siamo quelli che più di ogni altro possono trarre beneficio dalle tecnologie applicate. Noi abbiamo il dovere morale di fare tutto quello che possiamo per assicurare ai nostri fratelli più gravemente disabili il massimo di protezione, sicurezza e benessere.

Dunque, come potrebbe verificarsi questo cambiamento nella direzione della ricerca? Intanto noi possiamo attribuire una responsabilità effettiva a persone autistiche. Il fatto è che i ricercatori hanno trattato l’autismo come una disabilità infantile, mentre si tratta di una differenza per tutta la vita. Se la fanciullezza è solo un quarto della durata di una vita, allora i tre quarti della popolazione autistica sono rappresentati da adulti. Non è sensato allora che alcuni di noi vogliano assumere un ruolo nella determinazione del corso della ricerca che ci tocca direttamente?
Se tu sei un ricercatore interessato all’autismo—e vuoi realmente fare la differenza—apri un dialogo con persone autistiche. Chiedi loro che cosa vogliono e di cosa hanno bisogno, e ascolta.

John Elder Robison è persona autistica, professore al College of William & Mary e autore di Look Me in the Eye. Il presente articolo è pubblicato nella MIT Technology Review

Trad. Fabio Brotto


Una miriade di associazioni per l’autismo

17/12/2014

escher-casa-di-scale-particolareUn articolo di Gianfranco Vitale, Rappresentativi solo se…, delinea bene la problematica di base delle associazioni che in Italia tutelano gli interessi delle persone con autismo. Sono una miriade, continuano a spuntare come funghi, spesso sono addirittura concepite per un singolo bambino. Certamente questa proliferazione non aiuta la causa generale, anzi la indebolisce moltissimo. Si tratta tuttavia di un fenomeno forse inarrestabile, che va studiato a fondo, per comprenderlo in tutti i suoi aspetti, altrimenti il rischio è quello di doversi limitare a deprecazioni improduttive e vane esortazioni. È vero che esiste anzitutto una spaccatura di fondo tra le famiglie: tra quelle che aderiscono alle indicazioni della scienza ufficiale, e alla linea guida dell’Istituto Superiore di Sanità, e quelle che si muovono in ogni direzione, prestando orecchio alle numerose sirene che promuovono cure senza fondamento scientifico e talvolta diffondono idee che rasentano la paranoia. Il primo gruppo di famiglie, io credo, dovrebbe essere interessato a coagularsi in un’associazione nazionale, o in una federazione di associazioni in grado di dar voce piena alle loro esigenze, che sono quelle dei loro figli con autismo. Oggi in teoria esistono sia l’associazione nazionale sia la federazione (ANGSA e FANTASiA), e trovano ascolto anche in ambienti politici e istituzionali forse grazie a certi legami col PD, ma non decollano, non riescono a raggiungere un numero veramente ampio di iscritti. Sono rappresentative, o possono ambire ad esserlo, solo da un punto di vista burocratico, non sostanziale. Mi pare urgente, dunque, continuare l’analisi che in questo articolo Vitale ha impostato. Perché è vero anzitutto che un numero consistente, anzi maggioritario, di famiglie giovani oggi non entra in alcuna associazione. Di quelle che rimangono, molte finiscono nei vari Comitati Montinari ecc.. Il resto è ulteriormente frammentato, per diversissime ragioni, sulle quali credo che la dirigenza nazionale di ANGSA dovrebbe riflettere molto, molto seriamente. Del resto, in quest’epoca di Internet, basta andare a guardare il sito di FANTASiA perché cadano le braccia: se non si lavora sulla comunicazione, non si va lontano.


Una Torta per l’Autismo

30/09/2014

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Chi non potesse essere presente ma volesse comunque sostenere il progetto “l’Orto di san Francesco” può farlo attraverso una piccola donazione sul c/c postale 95785846, intestato ad Associazione AUTISMO TREVISO ONLUS, oppure con un bonifico
IBAN: IT 34 P 07601 12000 000095785846


Autismo, “dopo di noi” e la nostalgia del futuro

14/09/2014

Loris (Lorenzo Gassi), "Paura e angoscia dell'autismo", 2001Un importante articolo di Gianfranco Vitale apparso su Superando.it offre abbondante materia di riflessione.

Può succedere, a volte, che i mass-media propongano l’uso esasperato di neologismi o di termini fino a poco tempo prima usati – come dire? – “normalmente”, che entrano a far parte, tout court, del nostro bagaglio comunicativo. È capitato ieri, ad esempio, con “nella misura in cui…” o “un attimino”, succede oggi con il “detto questo…”, con lo “stacchiamo la spina”, con “l’infantilismo intra-uterino”, e anche con l’abuso (avete notato?) dell’aggettivo “ottimo” e via dicendo.
In questo clima inflazionato, capita magari – persino a una modesta persona come il sottoscritto – di veder giudicato svariate volte, con la patente di “ottimo”, un normale intervento sul tema del cosiddetto “dopo di noi” [“‘Dopo di noi’: costruire il futuro, conoscendo il presente”, pubblicato dal nostro giornale, N.d.R.], in cui francamente credevo di essermi limitato a sottolineare situazioni e condizioni che tutti, ahimè,dovremmo conoscere bene. Continua…


Autism as Context Blindness

05/09/2014

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L’ipotesi della cecità al contesto, elaborata da Peter Vermeulen e presentata in Autism as Context Blindness (Autisme als contextblindheid, 2009, trad. ingl. AAPC 2012) è una rielaborazione e una specificazione della teoria della coerenza centrale debole di Uta Frith (p. 317). Buona parte del testo di Vermeulen è dedicata al funzionamento del cervello neurotipico nel suo uso del contesto. La comprensione dell’importanza dell’uso del contesto nel cervello neurotipico (in larga parte spontaneo, preconscio e misurabile in millisecondi) è infatti imprescindibile per comprendere la mente autistica e le sue problematiche.

Cosa intendiamo per contesto? «Il contesto è l’insieme di elementi  interni al soggetto che percepisce (elementi affettivi e cognitivi, e concetti nella memoria a lungo termine e nella memoria a breve termine) e di elementi presenti nell’ambiente spaziale e temporale di uno stimolo (vicino o lontano), insieme che influisce sulla percezione di quello stimolo e sul significato che gli viene attribuito. L’influenza può essere diretta, esplicita e conscia, ma anche — e ciò avviene il più delle volte — indiretta, implicita e subconscia. La sensitività al contesto è l’abilità a cogliere entro quella varietà di elementi l’informazione contestualmente rilevante e a trascurare quella contestualmente priva di importanza.» (p. 37) La cecità al contesto è un deficit nell’abilità ad usare il contesto in modo spontaneo e subconscio per determinare i significati. (p. 318)

Vermeulen enfatizza in modo persuasivo il ruolo determinante del contesto. «Il comportamento diventa più prevedibile quando si comprendono le ragioni del comportamento, quando si può fornire la spiegazione del perché qualcuno si stia comportando in un certo modo. Queste ragioni non sono direttamente osservabili perché sono interne: quello che la gente pensa, sente, conosce e vuole. Il successo della nostra interazione con gli altri è determinato in larga parte dal grado di empatia che noi possiamo raggiungere. E nell’intelligenza emozionale e sociale il contesto gioca un ruolo importante per i seguenti motivi:

  • Il contesto attiva la nostra capacità di empatia.
  • Il contesto ci aiuta a focalizzare la nostra attenzione sull’informazione socialmente rilevante, in modo che noi possiamo rapidamente decodificare le espressioni facciali e il linguaggio del corpo.
  • Il contesto chiarisce il linguaggio del corpo e le espressioni facciali ambigue.
  • Il contesto ci fornisce indizi sui sentimenti e i pensieri degli altri (perché gli altri sentano o pensino qualcosa).
  • Il contesto ci suggerisce come rispondere ai sentimenti e ai pensieri di altri, in modo che possiamo reagire appropriatamente e trovare soluzioni a problemi sociali.» (pp. 166-167)

In verità, lo stesso autore riconosce che l’espressione cecità è efficace ma imprecisa, e che è più corretto parlare di un deficit (più o meno grave) di sensitività al contesto: «La sensitività al contesto non è localizzata in un’area delimitata del cervello. Essa è legata alla cooperazione tra cellule, gruppi di cellule e aree del cervello. Ne segue che quando queste connessioni non funzionano in un modo coordinato, il cervello è meno sensibile al contesto.» (p. 62)

Non è difficile mostrare come nell’autismo il problema dei problemi sia quello dell’attribuzione di significato: a oggetti, parole, gesti. Infatti nel mondo umano delle menti non-autistiche i significati vengono attribuiti con spontanea elasticità e mediante fulminei adattamenti a contesti che possono variare nel loro significato globale anche solo per l’introduzione di un dettaglio, e in cui viceversa i dettagli sono disponibili a continue dislocazioni di significato a seconda del mutare dei contesti.  «Nulla ha un significato fisso e nulla è di importanza assoluta. Quello che il nostro cervello seleziona dall’ambiente dipende dal contesto. Differenze sensoriali, come l’ipersensitività alla luce o al suono, possono essere causate da una elaborazione degli stimoli priva di sensitività al contesto, nella quale gli stimoli sono elaborati in modo assoluto anziché relativamente. Se il contesto non fa bene il suo lavoro, l’elaborazione degli stimoli segue un principio assoluto: tutto o niente. Uno stimolo entra o non entra e non viene “adattato” dal contesto e dalla sua relazione ad altre sensazioni.» (p. 73)

Il funzionamento del contesto nella mente espressa da un cervello neurotipico, con il suo valore adattivo anche da un punto di vista evoluzionistico, è accuratamente descritto da Vermeulen sulla base delle recenti scoperte delle neuroscienze. Fondamentali mi sembrano anche le implicazioni che la comprensione dell’importanza globale del contesto per tutte le varie operazioni sociali del cervello ha su diversi piani, compreso quello del riconoscimento delle emozioni, che appare fortemente legato alla sensitività al contesto. (p. 129)

Vengono anche ricompresi alcuni luoghi comuni sull’autismo, come quello della comprensione letterale. Vermeulen riconfigura la problematica: «Il problema centrale nell’autismo non è (…) la tendenza a prendere le cose alla lettera, ma la difficoltà ad abbandonare il significato dominante per rimpiazzarlo con uno secondario quando il contesto lo richieda. » (p. 222) «Mentre generalmente si ritiene che le persone autistiche si trovino bene con i dettagli, io oso dire l’opposto: le persone autistiche si trovano in difficoltà coi dettagli. Ovvero esse hanno difficoltà nel distinguere i dettagli importanti da quelli non importanti. E questo è determinato dalla cecità al contesto. Infatti la rilevanza o l’irrilevanza di un dettaglio dipendono dal contesto.» (p. 313)

La teoria proposta da Vermeulen porta a ripensare l’autismo. Per lui l’autismo non è tanto un modo differente di pensare quanto un modo differente di percepire: «Le più avanzate tecniche di ricerca che ci consentono di mappare accuratamente il funzionamento del cervello ci mostrano come già dopo poche centinaia di millisecondi dal ricevimento dell’informazione il cervello delle persone con autismo lavori in modo differente dal cervello neurotipico, già prima che l’informazione raggiunga la coscienza. Sempre di più si evidenzia come non esista qualcosa come “il pensiero autistico” (la cognizione autistica), ma piuttosto una subcognizione autistica. Pertanto, la cecità al contesto non è un altro modo di definire il cosiddetto pensiero autistico, ma un tentativo di descrivere e spiegare le problematiche delle persone con autismo ai livelli più bassi del trattamento delle informazioni.»

Al termine di questa nota pongo un rilievo sui trattamenti dell’autismo: «Una ragione importante degli effetti limitati di molti tipi di trattamento e di istruzione è che essi insegnano abilità decontestualizzate. Essi hanno luogo in un ambiente artificiale. Si può paragonare ciò alla situazione di uno che voglia imparare a guidare un’auto leggendo un manuale» (p. 372)

Un libro stimolante, innovativo e illuminante, del quale sarebbe auspicabile una traduzione in lingua italiana.


L’epidemia non c’è

31/08/2014

A chi abbia una qualche conoscenza della storia dell’autismo e delle disabilità intellettive non può sfuggire la mancanza di seri criteri scientifici nei più accaniti sostenitori dell’idea di una epidemia di autismo in atto (molti dei quali non saprebbero nemmeno spiegare la differenza tra prevalenza e incidenza). Come sia andata la cosa è spiegato nel libro The Autism Matrix. Una meta-ricerca intitolata The epidemiology and global burden of autism spectrum disorders (Psychological Medicine, Cambridge University Press 2014) evidenzia come nel ventennio 1990–2010 a livello globale non vi sia stato alcun aumento della prevalenza dell’autismo nella popolazione. Se vi è un’epidemia di autismo in corso, essa non riguarda  la patologia, ma è una epidemia di diagnosi.


01/07/2014

Un video realizzato da Tello De Marco, che ringrazio sentitamente.


Costi dell’autismo nel Regno Unito

14/06/2014

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Da Financial

Secondo la London School of Economics l’autismo costa al Regno Unito più di malattie cardiache, cancro e ictus insieme.
Un nuovo studio condotto dalla LSE stima che l’autismo costi al Paese almeno 32 miliardi di sterline in trattamento, mancati guadagni, cura e supporto a bambini e adulti con autismo. Più di 600.000 persone nel Regno Unito hanno l’autismo, una condizione associata a scarse capacità sociali e comunicative, e a schemi di comportamento ripetitivi. Un quarto delle persone con autismo è incapace di parlare, e l’85% non ha un lavoro stabile.  La nuova ricerca, pubblicata nel Journal of the American Medical Association Pediatrics il 9 giugno, ha spinto famiglie, associazioni ed economisti dei sistemi sanitari a richiedere ancora un aumento degli investimenti nella ricerca sull’autismo.
Il prof. Martin Knapp della LSE dice che tra il 40 e il 60 per cento delle persone con disturbi dello spettro autistico presenta anche forme di ritardo mentale, e rappresenta nell’arco della vita un costo pro capite di circa 1 milione e 1/2 di sterline. «Quello che queste cifre evidenziano è la necessità di interventi più efficaci nel trattamento dell’autismo, soprattutto nella prima fase della vita, facendo l’uso migliore di risorse limitate,» dichiara il prof. Knapp. «Sono anche necessarie nuove politiche governative per l’enorme impatto dell’autismo sulle famiglie,» aggiunge lo studioso.
«Noi ci preoccupiamo delle vicende umane che stanno dietro questi numeri,» dice  Christine Swabey, CEO di Autistica, l’associazione per la ricerca sull’autismo più importante del Regno Unito.   «L’autismo dura per tutta la vita e può rendere altamente problematici una vita indipendente e un impiego lavorativo. Anche questo spiega perché esso abbia un impatto economico superiore a quello di altre condizioni.»  «Vi è un inaccettabile sbilanciamento tra i costi dell’autismo e la somma di quello che ogni anno spendiamo per la ricerca su come cambiare radicalmente le prospettive di vita delle persone. Noi sappiamo che il progresso è possibile. Una ricerca corretta potrà fornire interventi precoci, migliore salute mentale, e maggiore indipendenza. Ma in questo momento noi spendiamo solo 180 sterline in ricerca contro ogni milione che spendiamo in accudimento,» aggiunge la Swabey.
Secondo la LSE l’impatto dell’autismo comprende spese in servizi ospedalieri, assistenza sanitaria domestica, strutture per l’educazione speciale e per il sollievo delle famiglie, e anche i mancati guadagni delle persone con autismo e dei loro genitori.
Secondo il prof. Declan Murphy, dell’Istituto di Psichiatria, «le cifre dei costi mostrano che l’autismo colpisce tutti noi in quanto membri della società, ogni giorno, a prescindere dal fatto che abbiamo un membro della famiglia o un amico con autismo. Così, noi tutti dobbiamo impegnarci in qualche modo a migliorare le cose. Più fondi alla ricerca significherebbe che noi possiamo condurre studi volti a trasformare le vite.»
In un’indagine recente condotta da Autistica, il 90% dei genitori e l’ 89% degli adulti con autismo dice che c’è bisogno di una maggiore comprensione scientifica dell’autismo. Un padre dichiara: «Dovremmo far lavorare la scienza più duramente per rendere la vita più sopportabile». E una donna, cui l’autismo è stato diagnosticato a 50 anni: «Io cerco interventi per me, ma non sembra che per le persone della mia età ci sia un qualche intervento.»