Gent.mo prof Vizioli,
“Lei faccia il genitore!” ; “Lei il bambino lo ha voluto?”. Un invito e una domanda che sovente, ancora oggi, molti papà e mamme di bambini autistici si sentono rivolgere. Ma non in un salotto o per strada, da persone che dell’autismo non sanno nulla o ne hanno solo una vaga idea, bensì nello studio di un neuropsichiatra infantile o di uno psicologo dell’azienda sanitaria locale. Un invito assurdo, una domanda inaccettabile. Questo invito e questa domanda, che purtroppo risuonano spesso, sono due importanti segnali dell’immensa arretratezza culturale con cui oggi, nel 2011, in Italia viene ancora affrontata la questione dell’autismo.
Dell’autismo oggi si sa molto, non è più un mistero. Si sa, ad esempio, che è una sindrome conseguente ad un disturbo di origine neurobiologica, e che quindi la sua causa è organica, che sicuramente vi è una implicazione genetica (che coinvolge numerosi geni e non uno solo), che non è una malattia da cui si possa guarire con diete o trattamenti avventurosi, e che l’unica cosa che può dare risultati misurabili è un intervento educativo precoce e intensivo, secondo modalità cognitivo-comportamentali, ormai ampiamente sperimentate a livello internazionale. Non è il caso di dare spazio a varianti della pet-therapy o a ipotesi non suffragate da ricerca e sperimentazione a livello internazionale. In passato, era prevalente un approccio di tipo psicodinamico, orientato dalla psicoanalisi. Alla base di una grande confusione, e di una serie di pratiche errate e che colpevolizzano i genitori (come se fossero il loro più o meno inconscio rifiuto del bambino e la freddezza materna – la cosiddetta madre frigorifero – a far sì che il bambino si richiuda in una sorta di guscio ermetico), sta anche l’uso del termine autismo. Spesso i nomi che si scelgono per denominare qualcosa hanno delle conseguenze importanti. E autismo fu il termine che il grande psichiatra svizzero Eugen Bleuler, studioso delle schizofrenie, utilizzò un secolo fa per indicare quel sottogruppo di schizofrenici che si richiudono totalmente in se stessi, con una sorta di fuga dal mondo, quasi bastando a se stessi (dal greco autos, che significa stesso). Quando lo psicologo americano Leo Kanner nel 1943 individuò per primo uno specifico gruppo di bambini che presentavano i sintomi di quello che in seguito comunemente sarebbe stato chiamato autismo, riprese il termine di Bleuler, come si trattasse dello stesso disturbo mentale degli schizofrenici, che compare però precocemente nei bambini, e lo denominò autismo infantile precoce. Qui sta una delle radici della confusione che ancora oggi regna nelle teste di molti neuropsichiatri e psicologi, ovvero quella tra una psicosi, qual è la schizofrenia, cioè una malattia mentale che può comparire ad un certo punto della vita, ed una disabilità originaria, che si manifesta sempre entro i primi 3 anni di vita, qual è l’autismo. Sempre è un guaio quando si usa lo stesso termine ad indicare, su un piano scientifico, due patologie differenti. Torniamo all’invito e alla domanda con cui abbiamo iniziato. Chiedere ad una mamma se abbia desiderato o meno quel suo bambino che manifesta gravi problemi comportamentali, che non parla, o che passa ore a compiere macchinalmente sempre lo stesso gesto, è sensato solo a partire dalla convinzione che l’autismo sorga a causa dei genitori, abbia cioè una origine nella relazione madre-figlio. Questa idea è radicalmente sbagliata, e di questo esistono prove innumerevoli, non ultima la dedizione assoluta al figlio che moltissime famiglie mostrano, superando difficoltà gigantesche. Tuttavia, è difficile liberarsi delle proprie convinzioni, e molte famiglie con figli autistici lo provano sulla propria pelle, anzitutto sentendosi fare quella domanda, che insinua un dubbio, e alimenta i sensi di colpa. La prima cosa che un neuropsichiatra dovrebbe fare è liberare preventivamente la famiglia da ogni senso di colpa, spiegando cosa sia l’autismo e come esso sia un disturbo di origine neurobiologica. Qui occorre una vera rivoluzione culturale! Quanto all’invito a fare semplicemente il genitore, nel caso dell’autismo è totalmente assurdo, per il semplice fatto che il genitore in quanto tale non sa cosa fare col figlio. Con gli autistici non vale seguire né il sentimento spontaneo, né l’istinto, né il buon cuore. Occorre competenza. Pensate ad un bambino che non parla, non comunica in alcun modo, ma spesso si arrabbia, si picchia, urla, e mangia solo cibi di colore bianco, vuole salire solo su auto rosse come quella del nonno, beve solo aranciata, e ha tutta una serie di comportamenti bizzarri. Che significa fare il genitore, se non sai nemmeno come insegnargli a fare la pipì nel WC, e il bambino mostra di non sapere imitare nemmeno i gesti più semplici delle altre persone? Il neuropsichiatra dovrebbe invece dire più o meno questo: “Cari genitori, l’autismo è un problema gravissimo, ma si può fare molto per vostro figlio. Esistono questi programmi educativi speciali. Poiché è necessario un intervento educativo intensivo e precoce, dalla prossima settimana verrà a casa vostra l’educatrice del nostro centro per l’autismo, dott.ssa Rossi, e vi aiuterà a sistemare l’ambiente domestico secondo le esigenze del bambino, e comincerà a mostrarvi come si fa a comunicare con lui. Sarete avvisati della data di inizio del programma speciale qui al centro. Faremo anzitutto una accurata valutazione del bambino, per misurarne le capacità e le attuali condizioni in tutti gli ambiti, e prepareremo un programma per lui, in cui saranno indicati tutti gli obiettivi da raggiungere, gli strumenti da utilizzare, e i criteri di verifica degli obiettivi stessi. Periodicamente saranno effettuate nuove valutazioni, in modo da verificare continuamente l’efficacia del trattamento e rimodularlo ove necessario. Prenderemo contatti con l’asilo per preparare l’ingresso del bambino e i programmi abilitativi individualizzati che dovranno essere portati avanti a scuola con la supervisione del nostro neuropsicologo e dell’educatrice del centro. Inizieremo anche un programma di parent training perché i genitori devono assolutamente partecipare al lavoro educativo e ricevere tutte le informazioni e la formazione necessaria. Cari genitori, è soltanto lavorando da subito tutti insieme, ULSS, famiglia e scuola, che il vostro bambino potrà migliorare e vivere una vita tranquilla e serena. Il vostro lavoro è importante come e più del nostro, perciò rimbocchiamoci le mani insieme e vedrete che si potrà fare molto”. Purtroppo, è ben raro che una famiglia con un figlio autistico si senta fare un discorso del genere. Occorre una rivoluzione culturale! Per i motivi che ho indicato, e per i molti altri che potrei indicare, occorre richiamare all’attenzione di tutti l’estrema gravità della situazione in cui versano in Italia le persone con autismo e le loro famiglie. L’offerta di terapie aggiornate è quasi nulla, e i servizi dedicati e metodologicamente validi sono sostanzialmente inesistenti. Tuttora la condizione delle famiglie al cui interno si trovano persone autistiche è disperata. Non ci sono prospettive rassicuranti per il futuro, e l’attuale clima di tagli accentua una sensazione generale di isolamento e impotenza. Per questo, Autismo Treviso onlus, di cui sono presidente, denuncia la radicale insufficienza di quel che viene offerto e sostiene la necessità di una vera e propria rivoluzione culturale nella questione dell’autismo. Mi pare, in conclusione, che l’impostazione data alla Giornata non corrisponda allo standard richiesto dalle attuali conoscenze sull’autismo. Distinti saluti Fabio Brotto (padre di una persona con autismo, presidente di Autismo Treviso onlus) |
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