Autism as Context Blindness

05/09/2014

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L’ipotesi della cecità al contesto, elaborata da Peter Vermeulen e presentata in Autism as Context Blindness (Autisme als contextblindheid, 2009, trad. ingl. AAPC 2012) è una rielaborazione e una specificazione della teoria della coerenza centrale debole di Uta Frith (p. 317). Buona parte del testo di Vermeulen è dedicata al funzionamento del cervello neurotipico nel suo uso del contesto. La comprensione dell’importanza dell’uso del contesto nel cervello neurotipico (in larga parte spontaneo, preconscio e misurabile in millisecondi) è infatti imprescindibile per comprendere la mente autistica e le sue problematiche.

Cosa intendiamo per contesto? «Il contesto è l’insieme di elementi  interni al soggetto che percepisce (elementi affettivi e cognitivi, e concetti nella memoria a lungo termine e nella memoria a breve termine) e di elementi presenti nell’ambiente spaziale e temporale di uno stimolo (vicino o lontano), insieme che influisce sulla percezione di quello stimolo e sul significato che gli viene attribuito. L’influenza può essere diretta, esplicita e conscia, ma anche — e ciò avviene il più delle volte — indiretta, implicita e subconscia. La sensitività al contesto è l’abilità a cogliere entro quella varietà di elementi l’informazione contestualmente rilevante e a trascurare quella contestualmente priva di importanza.» (p. 37) La cecità al contesto è un deficit nell’abilità ad usare il contesto in modo spontaneo e subconscio per determinare i significati. (p. 318)

Vermeulen enfatizza in modo persuasivo il ruolo determinante del contesto. «Il comportamento diventa più prevedibile quando si comprendono le ragioni del comportamento, quando si può fornire la spiegazione del perché qualcuno si stia comportando in un certo modo. Queste ragioni non sono direttamente osservabili perché sono interne: quello che la gente pensa, sente, conosce e vuole. Il successo della nostra interazione con gli altri è determinato in larga parte dal grado di empatia che noi possiamo raggiungere. E nell’intelligenza emozionale e sociale il contesto gioca un ruolo importante per i seguenti motivi:

  • Il contesto attiva la nostra capacità di empatia.
  • Il contesto ci aiuta a focalizzare la nostra attenzione sull’informazione socialmente rilevante, in modo che noi possiamo rapidamente decodificare le espressioni facciali e il linguaggio del corpo.
  • Il contesto chiarisce il linguaggio del corpo e le espressioni facciali ambigue.
  • Il contesto ci fornisce indizi sui sentimenti e i pensieri degli altri (perché gli altri sentano o pensino qualcosa).
  • Il contesto ci suggerisce come rispondere ai sentimenti e ai pensieri di altri, in modo che possiamo reagire appropriatamente e trovare soluzioni a problemi sociali.» (pp. 166-167)

In verità, lo stesso autore riconosce che l’espressione cecità è efficace ma imprecisa, e che è più corretto parlare di un deficit (più o meno grave) di sensitività al contesto: «La sensitività al contesto non è localizzata in un’area delimitata del cervello. Essa è legata alla cooperazione tra cellule, gruppi di cellule e aree del cervello. Ne segue che quando queste connessioni non funzionano in un modo coordinato, il cervello è meno sensibile al contesto.» (p. 62)

Non è difficile mostrare come nell’autismo il problema dei problemi sia quello dell’attribuzione di significato: a oggetti, parole, gesti. Infatti nel mondo umano delle menti non-autistiche i significati vengono attribuiti con spontanea elasticità e mediante fulminei adattamenti a contesti che possono variare nel loro significato globale anche solo per l’introduzione di un dettaglio, e in cui viceversa i dettagli sono disponibili a continue dislocazioni di significato a seconda del mutare dei contesti.  «Nulla ha un significato fisso e nulla è di importanza assoluta. Quello che il nostro cervello seleziona dall’ambiente dipende dal contesto. Differenze sensoriali, come l’ipersensitività alla luce o al suono, possono essere causate da una elaborazione degli stimoli priva di sensitività al contesto, nella quale gli stimoli sono elaborati in modo assoluto anziché relativamente. Se il contesto non fa bene il suo lavoro, l’elaborazione degli stimoli segue un principio assoluto: tutto o niente. Uno stimolo entra o non entra e non viene “adattato” dal contesto e dalla sua relazione ad altre sensazioni.» (p. 73)

Il funzionamento del contesto nella mente espressa da un cervello neurotipico, con il suo valore adattivo anche da un punto di vista evoluzionistico, è accuratamente descritto da Vermeulen sulla base delle recenti scoperte delle neuroscienze. Fondamentali mi sembrano anche le implicazioni che la comprensione dell’importanza globale del contesto per tutte le varie operazioni sociali del cervello ha su diversi piani, compreso quello del riconoscimento delle emozioni, che appare fortemente legato alla sensitività al contesto. (p. 129)

Vengono anche ricompresi alcuni luoghi comuni sull’autismo, come quello della comprensione letterale. Vermeulen riconfigura la problematica: «Il problema centrale nell’autismo non è (…) la tendenza a prendere le cose alla lettera, ma la difficoltà ad abbandonare il significato dominante per rimpiazzarlo con uno secondario quando il contesto lo richieda. » (p. 222) «Mentre generalmente si ritiene che le persone autistiche si trovino bene con i dettagli, io oso dire l’opposto: le persone autistiche si trovano in difficoltà coi dettagli. Ovvero esse hanno difficoltà nel distinguere i dettagli importanti da quelli non importanti. E questo è determinato dalla cecità al contesto. Infatti la rilevanza o l’irrilevanza di un dettaglio dipendono dal contesto.» (p. 313)

La teoria proposta da Vermeulen porta a ripensare l’autismo. Per lui l’autismo non è tanto un modo differente di pensare quanto un modo differente di percepire: «Le più avanzate tecniche di ricerca che ci consentono di mappare accuratamente il funzionamento del cervello ci mostrano come già dopo poche centinaia di millisecondi dal ricevimento dell’informazione il cervello delle persone con autismo lavori in modo differente dal cervello neurotipico, già prima che l’informazione raggiunga la coscienza. Sempre di più si evidenzia come non esista qualcosa come “il pensiero autistico” (la cognizione autistica), ma piuttosto una subcognizione autistica. Pertanto, la cecità al contesto non è un altro modo di definire il cosiddetto pensiero autistico, ma un tentativo di descrivere e spiegare le problematiche delle persone con autismo ai livelli più bassi del trattamento delle informazioni.»

Al termine di questa nota pongo un rilievo sui trattamenti dell’autismo: «Una ragione importante degli effetti limitati di molti tipi di trattamento e di istruzione è che essi insegnano abilità decontestualizzate. Essi hanno luogo in un ambiente artificiale. Si può paragonare ciò alla situazione di uno che voglia imparare a guidare un’auto leggendo un manuale» (p. 372)

Un libro stimolante, innovativo e illuminante, del quale sarebbe auspicabile una traduzione in lingua italiana.


Io sono speciale

21/05/2014

Cinque principi pratici che sono anche cinque obiettivi caratterizzano il programma descritto da questo libro, e sono esposti a p. 28:

1. conoscere il proprio autismo, comprenderlo ed essere in grado di spiegarselo;
2. essere in grado di descrivere gli effetti dell’autismo sul proprio funzionamento e sulla propria vita;
3. essere in grado di individuare, precisamente e concretamente, le situazioni difficili connesse al proprio autismo;
4. essere in grado di identificare strategie utilizzabili per gestire le situazioni difficili (oltre a nuove strategie e abilità che basta semplicemente insegnare);
5. essere in grado di dare all’autismo uno spazio nella propria immagine di sé, in modo da sviluppare e/o mantenere una buona autostima.

Uscito in Belgio nel 2010, pubblicato in Italia da Erickson nel 2013, Io sono speciale si rivolge essenzialmente alle persone con autismo a funzionamento medio-alto, alle loro famiglie, e a tutti quelli che lavorano a contatto con loro. Profondo conoscitore del funzionamento della mente autistica, su cui ha scritto due libri—Autistic Thinking. This is the Title (2001) e Autism as Context Blindness (2013)—, Peter Vermeulen si occupa qui dell’immagine e della conoscenza di sé delle persone con autismo, un tema su cui la ricerca non appare oggi molto impegnata. Quali sono i modi appropriati per parlare dell’autismo, per spiegarlo, alle persone che ce l’hanno? Se è vero che essere autistici comporta grandissime difficoltà in molti campi dell’esistenza, quali sono le informazioni sulla propria condizione che bisogna possedere per poter affrontare quelle difficoltà nel miglior modo possibile? Il libro espone il programma articolato e in fieri, un programma aperto continuamente integrato e sviluppato nelle sue parti, che l’ Autisme Centraal di Vermeulen sta conducendo da anni. È un manuale, corredato di un CD con 400 schede, e fondato su un metodo che Vermeulen chiama socratistico, ovvero il metodo socratico applicato all’autismo: come il maieuta di Socrate, chi intende aiutare la persona con autismo a conoscere se stessa, che si tratti di un bambino, di un adolescente o di un adulto, deve operare affinché quella specifica persona trovi in sé la risposta, in una prospettiva di autodeterminazione. Ovvero è necessario che l’autistico sia condotto a se stesso con mano leggera, rispettandolo profondamente, accettandolo per quello che è: una persona dalla mente diversa, che può essere aiutata a crescere fino ad autogovernarsi, in tutto o in parte. Il libro è molto più pratico che teorico, e contiene molte indicazioni che potranno rivelarsi assai utili in tutti gli ambienti frequentati dalla persona con autismo, se si tiene conto di quanto sia importante l’immagine di sé in tutti gli aspetti della vita quotidiana. Dal testo di Vermeulen emerge chiaramente come possa essere problematico anche il lavoro con autistici dal buon livello intellettivo, che pongono la questione del diritto al proprio tipo di mente (ad es. pp. 86-87), ma anche quanto forte sia il rischio di sopravvalutarne la comprensione, e quanto ci si debba mantenere coscienti del fatto che anche persone con autismo dal buon grado di autonomia rischiano sempre il blocco del pensiero e dell’azione (p. 241).