ABA fa male agli autistici?

29/04/2018

 

abacontroversy

Quando la parte più alta dello Spettro dell’Autismo parla, sarebbe bene ascoltarla, sempre. Ma non avviene spesso, e, cosa singolare, spesso non avviene da parte dei grandi esperti mondiali di autismo, che sono tutti neurotipici. Articoli come Does ABA harm Autistic People? di Shona Davison (che è autistica e madre di due autistici) potranno forse apparire sconcertanti a coloro che in Italia si battono per il benessere e i diritti delle persone con autismo. Mettono infatti sul banco degli accusati l’ABA (Applied behaviour analysis), cioè  quello che per molti è il principale, e di fatto l’unico disponibile trattamento scientificamente validato, o almeno quello più sicuro, che dà i migliori risultati e consente i più vistosi progressi: spesso l’unica ancora di salvezza per moltissime famiglie. Tuttavia, le tesi di Shona Davison non sono solo sue: appartengono all’ala militante della Self-Advocacy della comunità dell’autismo nei Paesi anglosassoni (dove soluzioni e problematiche emergono con anni di anticipo rispetto all’Italia). Sono tesi diffuse, e hanno un senso ben preciso. Sono state delineate anche in libri di grande successo, come NeuroTribes di Steve Silberman. Esse investono problemi generali e questioni che possono sembrare astratte e remote dalla vita quotidiana, mentre riguardano da vicino la natura stessa della nostra società e i suoi valori di fondo. Anche da questo articolo, come da una infinità di post, documenti e discorsi accessibili nel Web e prodotti da quelli che io definirò da qui in avanti autistici militanti, le persone autistiche sono concepite come una minoranza all’interno della società. Come i neri, ma soprattutto come gli omosessuali (ad alcuni dei quali, non a caso, ai suoi esordi si applicò l’ABA nell’intento di normalizzarli, ovvero di trasformarli in eterosessuali). Ogni minoranza può essere oppressa, ovvero si può usare la violenza in varie e spesso subdole forme, per normalizzarla. Si può cioè forzarla a perdere i suoi caratteri distintivi, quelli che la rendono tale qual è e vuole continuare ad essere. Gli autistici militanti non vedono l’autismo come una malattia e nemmeno come una condizione limitante, lo vedono come differenza: la persona autistica è soltanto una persona con un diverso tipo di mente. E ha il diritto di tenersela e di vivere secondo la propria natura. Di conseguenza, applicare tecniche comportamentali su un bambino autistico sperando di farlo fuoriuscire dallo Spettro  pone una grave questione etica, ampiamente sottovalutata in tutto il mondo, e in Italia totalmente ignorata (l’etica, si sa, non è il forte degli Italiani).

Alcune affermazioni di Shona Davison. «È possibile cambiare il comportamento mediante l’ABA, questo è sicuro – anche se non con l’efficacia che qualcuno pensa (vedi Dawson, 2004; Hassiotis et al., 2018, Hughes, 2008). Ma il punto non è questo. Noi dovremmo considerare se ci sia consentito cambiare il comportamento – che spesso è inoffensivo e spesso anche utile. Molto spesso il principale beneficiario del cambiamento non è la persona autistica, sono le persone intorno a lei. […] Mentre la società punta a questo obiettivo  – quello di renderci  ‘normali’ – i nostri diritti umani vengono violati. Puntare alla ‘normalità’ è un obiettivo non-etico, spesso è vano, e molti resoconti di prima mano mostrano che quando viene raggiunto è ad un prezzo troppo alto pagato dalla persona autistica. […] Cambiare il comportamento usando tecniche comportamentali non è particolarmente difficile. Forse dovremmo chiederci: ‘dobbiamo cambiare il comportamento?’; ‘chi beneficerà dal cambiamento?’; e ‘stiamo per cambiare il comportamento senza aver individuato la causa che ne sta alla radice?’.»

È evidente che, una volta affermato il diritto alla neurodiversità, il diritto di ogni tipo di mente ad essere quello che è, occorre affrontare tutte le conseguenze che necessariamente ne scaturiscono. Perché un conto è una mente differente, un conto è una mente disabile. Se è vero che si può pensare ad una disabilità relativa alle richieste dell’ambiente, così che la persona x, in presenza di determinate condizioni, può vivere felicemente la propria vita, come sembra fare Shona Davison, che è anche madre di due figli a loro volta autistici, è anche vero che esistono nello Spettro, nella sua parte medio-bassa, molte persone del tutto incapaci di provvedere anche alle minime necessità della vita, e incapaci di svolgere qualsiasi riflessione su di sé, anzitutto per mancanza di parole, perché sono averbali. Si conferma ancora, per l’ennesima volta, come la vastità dello Spettro annebbi le innumerevoli differenze e gradazioni al suo interno. Ma è proprio per questo, lo dice il padre di una persona autistica averbale, che bisogna prestare la massima attenzione alle parole delle persone come Shona. La quale invoca – e come non essere d’accordo?  – un approccio critico.

Sappiamo che Ivar Lovaas negli anni Settanta applicò un intervento comportamentale che oggi definiremmo barbaro o nazista a un bambino per estinguerne i comportamenti “da femminuccia” (Rekers and Lovaas, 1974). Le analogie con la lotta della comunità gay sono fortemente sentite e messe in rilievo dagli autistici militanti. Nella sua conclusione, che pone un interrogativo molto serio, e sul quale occorre ragionare, Shona Davison scrive che «molte persone possono vedere quanto sia non-etico usare l’ABA per insegnare alle persone gay a comportarsi come gli eterosessuali. Perché la stessa cosa è ritenuta accettabile per le persone autistiche? Non ho ancora ascoltato una risposta soddisfacente a questa domanda.» Rispondete, se potete.

 

 

 


Io amo mio figlio, non il suo autismo

10/10/2015

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di

In response to John Robison, “Psychology Today,” “Does Neurodiversity Whitewash Autism?” (Sep 29, 2015)

C’è un vecchio detto: “scrivi di quello che conosci”. E John Elder Robison lo fa, e lo fa benissimo. Anche quando mi trovo in disaccordo con lui, Robison rimane lo scrittore con autismo che preferisco, uno che descrive l’autismo dall’interno con bravura, intelligenza e umorismo. Di recente, tuttavia, Robison ha scritto di qualcosa che non conosce: mio figlio Ben.
Anche Ben ha l’autismo. Quando scrivo di Ben e del suo autismo, io sono un esperto. A causa dei grandi cambiamenti nel significato della parola stessa che sono intercorsi da quando Ben fu diagnosticato, nel 1995, io di solito mi riferisco alla sua condizione come autismo severo. Io non parlerei mai di Robison e della sua esperienza al posto suo, voglio solo imparare dalle sue parole. Lui ci fornisce la possibilità di penetrare nel mondo interiore del nostro stesso figlio. O almeno noi pensiamo che ce la fornisca. Ma Ben, un giovane uomo di 22 anni, non può esprimersi come fa Robison. Anzi, è ben lungi dal poterlo fare.
Io sono decisamente un genitore che ama suo figlio e odia il suo severo autismo. Quando dico che l’autismo di Ben è un disturbo distruttivo che noi odiamo, il mio non è un semplice sfogo, come lo etichetta Robison. Come potremmo NON odiarlo? Da quando aveva 12 anni, l’autismo ha impedito a Ben di essere in grado di vivere con la sua famiglia, e perfino nello stesso Stato, perché necessita di un’assistenza continua e attenta. Dopo decenni di lavoro con lui da parte di professionisti specializzati, la vita di Ben rimane estremamente limitata. Lui necessita di assistenza 24 ore su ventiquattro, 7 giorni su 7, e non si vede alcun segno che questo un giorno possa cambiare. Ben dipende dagli altri… quasi per ogni cosa. Quando la sua mamma e io saremo morti, questa dipendenza dagli altri rimarrà, e questo fatto terrorizza tutti i genitori come noi.
Per Ben e per molti come lui non è una semplice faccenda di disabilità intellettiva e di basso QI. In effetti, l’intelligenza di base di Ben forse è molto più alta di quel che riesce a comunicare. I problemi di comunicazione che discendono dal suo autismo severo (ebbene, sì, con lui sono stati utilizzati molti strumenti e tecniche di comunicazione, che hanno aiutato fino ad un certo punto) alimentano le sue ansie, che sono nel nucleo del suo funzionamento. Che si tratti del suo frequente camminare avanti e indietro, o di un occasionale comportamento aggressivo, tutto deriva, almeno in parte, da paura e ansia, e dall’incapacità di esprimerle e controllarle. Sentirsi tesi e ansiosi fin dal momento in cui gli occhi si aprono la mattina, per motivi fisiologici che non si possono controllare, in aggiunta ad un’estrema difficoltà di comprendere gran parte di quello che noi diamo per scontato minuto per minuto nella nostra vita – semplicemente immaginarlo mi sconvolge. Ma noi abbiamo dovuto fare di più che immaginarlo. Noi lo abbiamo visto, sentito, e combattuto per tutta la sua vita. Non lui, Ben, ma il nemico di nostro figlio, il suo autismo.
Non mi sogno nemmeno di dire a Robison o a chiunque altro sente come lui che il suo autismo, gli piaccia o meno, è un disturbo. Ma l’autismo severo di Ben è un disturbo distruttivo. Come analogia, Robison cita il divorzio e dice che “ai genitori si raccomanda di non criticare l’ex coniuge davanti ai bambini, perché quei bambini sono per metà lui (o lei)” e dire alle persone con autismo “che voi lo odiate è corrosivo come dire che voi odiate il nostro altro genitore”. Nel mio lavoro come psicologo, e direttore per 25 anni di servizi di protezione dei bambini e mediazione nei casi di divorzio, ho dato lo stesso consiglio letteralmente, migliaia di volte, e vedo tra questi due mondi un’analogia differente. Criticare l’altro genitore in un divorzio non è lo stesso che criticare l’autismo. Mantenendo l’analogia del divorzio, l’autismo non è l’altro genitore, l’autismo è il divorzio stesso. È l’autismo severo la causa della misera vita di Ben, e non la nostra opinione sull’autismo. Una persona non sceglie mai di avere l’autismo, anche se vive un’esistenza in cui lo gestisce con successo, o anche se esso le conferisce qualche capacità superiore, e un bambino praticamente mai sceglie per i suoi genitori il divorzio, perfino quando il divorzio può rappresentare un beneficio per tutte le parti coinvolte.
Robison crede che “se tu non sei autistico, non spetta a te odiare o giudicare”. Sono d’accordo, se si considera l’autismo non un disturbo ma una differenza. Odiare qualcuno o qualcosa soltanto per il suo essere differente è orribile. Ma anche l’autismo severo di Ben è orribile. Per tutto quello che ha distrutto, odiarlo non lo è. Odiarlo è naturale.

Pubblicato su Huffington Post

Nota del traduttore Fabio Brotto

In questo post di David Royko si vede nitidamente quella che secondo me oggi è la questione decisiva nel mondo dell’autismo: quella della differenza. Ma non si tratta della differenza tra autistici e neurotipici, bensì della differenza qualitativa tra l’autismo ad alto/altissimo funzionamento e quello severo. Tra neurodiversità e disturbo, tra una mente diversa e una mente disabile, c’è un abisso. Vogliamo riconoscerne l’esistenza?