La scuola per un normale autistico

15/07/2015

Questo articolo di Gianluca Nicoletti è molto interessante sotto diversi aspetti. Ne richiamerò qui due. Anzitutto è interessante perché fa risaltare ancora una volta la grande distanza che sempre esiste in Italia tra la validità dei princìpi, solennemente espressi dalle leggi, e la messa in atto degli stessi sul piano della vita quotidiana. L’inclusione scolastica delle persone con autismo, ad esempio, è uno dei campi in cui questa distanza è palpabile, in cui i soggetti autistici e le famiglie sperimentano massimamente la radicale estraneità tra la proclamazione e l’atto. Qui sta anche, e se non lo si capisce è meglio rinunciare a farsi interpreti dei bisogni delle persone autistiche, il motivo dello scarso entusiasmo con cui la stragrande maggioranza di coloro che vivono queste problematiche hanno accolto l’approvazione alla Camera del disegno di legge sull’autismo. Il loro scetticismo è razionalmente fondato, ma anzitutto è una pianta fatta crescere dall’esperienza di vita.
Il secondo aspetto è ancora più importante, e riguarda la comprensione generale di ciò che intendiamo quando diciamo autismo. Qui tocchiamo un tema su cui non cesserò di battere finché avrò fiato. L’ampiezza dello Spettro, infatti, fa sì che vi si comprendano persone che hanno caratteristiche e bisogni abissalmente lontani. Tra un autistico a basso funzionamento con capacità cognitive ridottissime ed un autistico ad altissimo funzionamento appassionato di matematica e in grado di fare l’università la lontananza è siderale, e le condizioni di vita e i destini non sono minimamente paragonabili. Anche nella scuola, ove il soggetto ad altissimo funzionamento, con tutti i problemi che potrà avere nella socializzazione e nei rapporti interpersonali, non finirà fuori della classe, non sarà relegato in una stanzetta, ecc. (Vi sarebbe qui da aprire poi un altro discorso: mio figlio Guido e altri come lui hanno assoluta necessità di disporre di un luogo appartato dove poter svolgere determinate attività, ecc.). Ma è evidente che il pericolo che corrono i genitori di persone autistiche è sempre anzitutto quello di vedere la sindrome attraverso il filtro della propria vita vissuta: e così in questo articolo di Nicoletti il normale autistico è un soggetto averbale. Ma questo è un arbitrio terminologico che, anche se detto con ironia, non possiamo accettare, perché comunque genera confusione. Purtroppo ilnormale autistico non esiste, i termini autistico e autismo ormai tendono a sprofondare in una nebulosa di insignificanza, per emergere dalla quale è urgente che le famiglie dei soggetti a basso funzionamento facciano risaltare con forza la differenza dei loro figli. Non è certo omologandoli agli Asperger che potremo costruire per loro un futuro non disumano.

La scuola per un normale autistico, di Gianluca Nicoletti

Ho incontrato Paola per strada, il suo ragazzo autistico Gabriele quest’anno è stato promosso agli esami di terza media. Paola in piedi sul marciapiede di Viale Mazzini,  con le spalle al muro in un bollente pomeriggio d’estate, è fiera del diploma del figlio.  Per lei è stato abbastanza umiliante vederlo alle prese con una commissione che nulla sapeva di lui, che non parla e che non scrive. A Gabriele è stato chiesto di firmare il verbale d’ esame, lui ha fatto tre linee aiutato dalla madre.

Paola ricorda anni desolati di vita scolastica, anni che Gabriele ha passato in una stanza invece che in classe, con insegnanti di sostegno non sempre all’ altezza della sua reale inclusione. Nella maggior parte dei casi persone che non avevano mai visto un autistico prima di lui, che non avevano nessuna cognizione di come trattarlo, coinvolgerlo, aiutarlo a costruirsi la sua dignità scolastica.

Cosa è stata per Gabriele finora la scuola? Un parcheggio, un luogo di passaggio, un’ ipocrisia perché si affermi un principio molto bello e sacrosanto come quello dell’inclusione, che però per gli autistici come Gabriele quasi mai corrisponde alla sua  reale applicazione.

Ora Gabriele sarà iscritto a un liceo, uno qualsiasi, scelto solo in base alla speranza che gli possa capitare come sostegno una ragazza molto brava e che la madre conosce, che è stata assegnata a quel liceo. Per Gabriele ci sarà ancora una stanza dove passerà il tempo con qualcuno che lo guarda a vista. Non è un caso eccezionale, la prassi è per lo più questa. Solo  quando si ha la fortuna di incontrare insegnanti che si sono formati per loro passione, e dirigenti scolastici particolarmente illuminati, accade il miracolo che un autistico possa anche sentirsi parte di una classe di suoi coetanei.

Ragazzi che naturalmente hanno un passo diverso, ma pur sempre ragazzi come lui e con i quali avrebbe diritto di stare assieme, partecipare alle attività non solo scolastiche, andare in gita, vivere la sua adolescenza. Quello che per tutti gli altri è garantito per noi autistici è un obiettivo sempre lontanissimo e difficile. Quello che per gli altri  genitori  è un documento da incorniciare, il primo attestato di autonomia del figlio che cresce, per noi autistici è un pezzo di carta che sembra burlarci con voti messi a caso.

Non racconta nulla  dell’autistico un criterio di giudizio pensato per lo studente neurotipico, noi autistici siamo invalutabili quanto indicibili. Una medaglia di cartone o un diploma del club di Topolino avrebbero forse più senso di un documento che ci viene dato solo per formalità, che non corrisponde agli  anni  evaporati  dietro al banco di una scuola.

via La scuola per un normale autistico – Alla fine qualcosa ci inventeremo.


Una miriade di associazioni per l’autismo

17/12/2014

escher-casa-di-scale-particolareUn articolo di Gianfranco Vitale, Rappresentativi solo se…, delinea bene la problematica di base delle associazioni che in Italia tutelano gli interessi delle persone con autismo. Sono una miriade, continuano a spuntare come funghi, spesso sono addirittura concepite per un singolo bambino. Certamente questa proliferazione non aiuta la causa generale, anzi la indebolisce moltissimo. Si tratta tuttavia di un fenomeno forse inarrestabile, che va studiato a fondo, per comprenderlo in tutti i suoi aspetti, altrimenti il rischio è quello di doversi limitare a deprecazioni improduttive e vane esortazioni. È vero che esiste anzitutto una spaccatura di fondo tra le famiglie: tra quelle che aderiscono alle indicazioni della scienza ufficiale, e alla linea guida dell’Istituto Superiore di Sanità, e quelle che si muovono in ogni direzione, prestando orecchio alle numerose sirene che promuovono cure senza fondamento scientifico e talvolta diffondono idee che rasentano la paranoia. Il primo gruppo di famiglie, io credo, dovrebbe essere interessato a coagularsi in un’associazione nazionale, o in una federazione di associazioni in grado di dar voce piena alle loro esigenze, che sono quelle dei loro figli con autismo. Oggi in teoria esistono sia l’associazione nazionale sia la federazione (ANGSA e FANTASiA), e trovano ascolto anche in ambienti politici e istituzionali forse grazie a certi legami col PD, ma non decollano, non riescono a raggiungere un numero veramente ampio di iscritti. Sono rappresentative, o possono ambire ad esserlo, solo da un punto di vista burocratico, non sostanziale. Mi pare urgente, dunque, continuare l’analisi che in questo articolo Vitale ha impostato. Perché è vero anzitutto che un numero consistente, anzi maggioritario, di famiglie giovani oggi non entra in alcuna associazione. Di quelle che rimangono, molte finiscono nei vari Comitati Montinari ecc.. Il resto è ulteriormente frammentato, per diversissime ragioni, sulle quali credo che la dirigenza nazionale di ANGSA dovrebbe riflettere molto, molto seriamente. Del resto, in quest’epoca di Internet, basta andare a guardare il sito di FANTASiA perché cadano le braccia: se non si lavora sulla comunicazione, non si va lontano.


Una Torta per l’Autismo

30/09/2014

1003079_838641086166164_7397797431766122424_n

Chi non potesse essere presente ma volesse comunque sostenere il progetto “l’Orto di san Francesco” può farlo attraverso una piccola donazione sul c/c postale 95785846, intestato ad Associazione AUTISMO TREVISO ONLUS, oppure con un bonifico
IBAN: IT 34 P 07601 12000 000095785846


Autismo, “dopo di noi” e la nostalgia del futuro

14/09/2014

Loris (Lorenzo Gassi), "Paura e angoscia dell'autismo", 2001Un importante articolo di Gianfranco Vitale apparso su Superando.it offre abbondante materia di riflessione.

Può succedere, a volte, che i mass-media propongano l’uso esasperato di neologismi o di termini fino a poco tempo prima usati – come dire? – “normalmente”, che entrano a far parte, tout court, del nostro bagaglio comunicativo. È capitato ieri, ad esempio, con “nella misura in cui…” o “un attimino”, succede oggi con il “detto questo…”, con lo “stacchiamo la spina”, con “l’infantilismo intra-uterino”, e anche con l’abuso (avete notato?) dell’aggettivo “ottimo” e via dicendo.
In questo clima inflazionato, capita magari – persino a una modesta persona come il sottoscritto – di veder giudicato svariate volte, con la patente di “ottimo”, un normale intervento sul tema del cosiddetto “dopo di noi” [“‘Dopo di noi’: costruire il futuro, conoscendo il presente”, pubblicato dal nostro giornale, N.d.R.], in cui francamente credevo di essermi limitato a sottolineare situazioni e condizioni che tutti, ahimè,dovremmo conoscere bene. Continua…


Lettera su vaccini e autismo

04/04/2014

autismo-e-vaccini

Autismo Treviso onlus è tra i primi firmatari di questa Lettera aperta sul presunto rapporto tra vaccini e autismo .

Al Ministro della Salute
On. Beatrice LORENZIN 
Al Presidente della XII Commissione
(Igiene e sanità) del Senato della Repubblica
On. Emilia Grazia DE BIASI 
Al Presidente della XII Commissione
(Affari sociali) della Camera dei Deputati
On. Pierpaolo VARGIU 
Al Presidente della Federazione nazionale
degli ordini dei medici chirurghi e degli odontoiatri
Dott. Amedeo BIANCO

La recente notizia dell’indagine della procura di Trani sul presunto nesso tra vaccinazione trivalente e autismo ha riaperto una discussione che sembrava sepolta. L’ipotesi che il vaccino trivalente MPR (morbillo, parotite, rosolia) potesse causare l’autismo risale al 1998 quando un medico inglese pubblicò uno studio che sembrava dimostrare l’esistenza di anticorpi antimorbillo nell’intestino di bambini autistici. L’allarme suscitato dallo studio causò un brusco calo delle vaccinazioni nel Regno Unito con conseguente ritorno del morbillo con migliaia di infezioni, molte complicazioni e persino decessi. Le indagini che seguirono scoprirono che l’autore dello studio aveva realizzato un falso scientifico deliberato, manipolando i dati e falsificando le conclusioni; confessò poi di aver agito su pagamento di un avvocato che si occupava di richieste di risarcimento. Lo studio fu quindi ritirato e il medico radiato dall’ordine professionale. Successive e ripetute indagini hanno dimostrato che non c’è nessuna relazione tra vaccinazione trivalente e autismo. Anzi, la correlazione è ampiamente smentita da studi su campioni importanti di popolazione. Leggi il seguito di questo post »


Consapevolezza

02/04/2014

10151983_605946406163117_1233423022_n

 

La consapevolezza si va diffondendo. Ma è chiaro che non basta. Occorrono i fatti, e i fatti seguono troppo lentamente.


Dialogo sull’autismo adulto

25/03/2014

VITALE locandina


Porte Aperte 2014

22/03/2014

locandina finita


A sé e agli altri

02/02/2014

Val

 Ormai è una verità stabilita: tra i ricoverati negli ospedali psichiatrici (morocomi, frenocomi, manicomi) dei tempi andati, una gran parte era costituita da disabili mentali, che oggi sarebbero inclusi nello spettro dell’autismo. Di questo elemento ogni ricerca che tocchi l’istituzione manicomiale deve tenere conto. Come ex veneziano e come padre di un ragazzo autistico a basso funzionamento sono stato invogliato alla lettura di A sé e agli altri, a cura di C. Russo, Michele Capararo ed Enrico Valtellina (Mimesis 2013). Storia della manicomializzazione dell’autismo e delle altre disabilità relazionali nelle cartelle cliniche di S. Servolo: il sottotitolo del libro è esplicativo, ma anche problematico. Si tratta di un testo complesso, di un tessuto di saggi di vari autori (9, di differente formazione) che hanno al centro la lettura di cartelle cliniche del manicomio di S. Servolo a Venezia, redatte in un ampio arco di anni. Cartelle talvolta ricche di informazioni, più spesso tristemente scarne, quasi vuote, ripetitive, comunicanti un sostanziale disinteresse dell’istituzione e di chi vi operava per l’altro, per il ricoverato, e per la sua sofferenza.
Un piccolo inciso personale. Ai miei ricordi veneziani degli anni Cinquanta e Sessanta appartengono espressioni allora ricorrenti sulla bocca della gente, anche per strada, frequentissime: «El vién fóra da S. Sèrvoło!» (viene fuori da S. Servolo!); «Te mando a S. Sèrvoło!» (ti mando a S. Servolo!) «Fate védar da Fàtovich!» (Fatti vedere da Fattovich!). Quest’ultimo, che diresse il manicomio veneziano maschile di S. Servolo e quello femminile di S. Clemente (siti in due diverse isole della laguna) in qualità di primario dal 1935 al 1969, godeva fama di individuo bizzarro, non meno matto dei matti sui quali usava ampiamente le pratiche della camicia di forza e dell’elettroshock. In quel tempo mio padre era segretario del consiglio provinciale, ed ogni tanto gli capitava di dover andare nell’isola insieme ad assessori e consiglieri. Il dott. Fattovich in quelle occasioni vi svolgeva il ruolo di anfitrione, a modo suo. Mi raccontò mio padre che una volta, essendo la delegazione provinciale invitata a pranzo, il dott. Fattovich la portò a visitare il gabinetto scientifico, ove si profuse in spiegazioni sui numerosi cervelli “anomali” conservati in formalina. Quando si assisero a tavola, la prima pietanza che fu servita agli ospiti perplessi, mentre Fattovich si sganasciava, furono cervella fritte. Un episodio altamente simbolico.

In realtà questo libro, A sé e agli altri, non è propriamente un libro sull’autismo misconosciuto, e nemmeno sulle disabilità relazionali fraintese e interpretate nei modi più diversi, con una sorta di frenesia nomenclatoria, sebbene l’autismo compaia in più luoghi e in più saggi. È un libro sulla psichiatria, sul suo complesso di inferiorità nei confronti degli altri saperi medici, sul suo procedere a tentoni, sul suo frequente adagiarsi nell’inerzia dei luoghi comuni socialmente condivisi e delle ideologie dominanti, sul suo sostanziale fallimento che ha seminato incommensurabili sofferenze. Questo fallimento traspare anche dal moltiplicarsi dei nomi assegnati alle malattie mentali, che si avvicendano in un rampollare inesauribile. Scrive Pietro Barbetta a p. 175 : «… il caos dell’inconscio psichiatrico può essere colto attraverso l’analisi dei significanti diagnostici. Immaginate una grande discarica, ove sono depositate tutte le parole che il discorso psichiatrico ha abbandonato. Ci avviciniamo alla discarica e troviamo parole che spuntano, riemergono secondo come muoviamo i rifiuti per cercare–come homeless, bricoleur, come cani randagi o ratti–qualcosa d’interessante. Ecco che spunta una parola, è già in superficie: oligofrenia. Attaccati per l’asse sintagmatico al suffisso si trovano frenastenia, frenopatia, schizofrenia, ebefrenia, frenetico, frenologia, freniatria, ecc., per l’asse paradigmatico: debolezza mentale, insufficienza, ritardo intellettivo, deficit, quoziente intellettivo, malformazione cognitiva, ecc.» (p. 175)
E l’autismo? Nell’insieme, questo libro è ostile ad ogni riduzionismo neuroscientifico e neurocognitivo, e in più modi sembra mettere in questione la stessa categoria diagnostica, oggi dilagante, di autismo. La sua impostazione fondamentalmente umanistica, che io apprezzo, mi sembra però sostanzialmente rifuggire da un vero confronto con le neuroscienze, confronto sul quale oggi si gioca tutto. Anche se è vero che il proprium del libro è l’intento di far risaltare la storia di San Servolo attraverso alcune vicende umane che lo hanno attraversato, è pur vero che quelle storie sono presentate come esemplari e su di esse ed intorno ad esse si articola una pluralità di discorsi che investono l’oggi della psichiatria. Vediamo solo qualche punto che potrebbe sollecitare l’interesse e la riflessione di chi di autismo si occupa, genitori compresi .

«Il proliferare delle diagnosi ha spinto a parlare di un’ “epidemia” di autismo mentre, come evidenziato da Roy Grinker (Grinker, 2007), Ian Hacking (Hacking, 2008) e Gil Eyal (Eyal & al., 2010), l’epidemia è di carattere culturale: è aumentata l’attenzione per la dimensione relazionale dell’esistenza, conseguentemente per le sue forme atipiche e patologiche. (…) Oggi la dimensione cognitiva è considerata un correlato dipendente dall’attitudine relazionale, il ritardo mentale è stato sussunto dall’autismo (gli allarmisti che invocano fondi per la ricerca sull’autismo a fronte dell’epidemia, non considerano come contestualmente sia venuto meno un numero corrispondente di persone diagnosticate per ritardo mentale).» (E. Valtellina, p. 8)

«… autismo non è un’entità clinica, una patologia individuabile per un’eziologia, ma il contenitore lessicale che raccoglie condizioni disparate, riunite per la comune manifestazione di forme atipiche dell’interazione in presenza.» (Valtellina, p. 9)

Non tutti i saggi del libro mi appaiono compiutamente perspicui. Alcuni, forse per le dimensioni ridotte in cui sono costretti, pongono qualche interrogativo sulla linea di pensiero che li fonda e percorre. Ad esempio quello, molto stimolante, di Andrèe Bella, Follia morale e modernità: la socializzazione impossibile, inizia citando Figure dell’autismo. Delle rappresentazioni in piena evoluzione di Ian Hacking, sostenendo che «parlando di autismo non ci troveremmo di fronte ad un continuum lineare unidimensionale, entro cui ci si può situare a fronte della maggiore o minore gravità dei sintomi, come suggerirebbe la metafora dello spettro, bensì di fronte ad uno spazio che può contenere e descrivere vari tipi di qualità, dimensioni e figure diverse che si interfacciano in modo complesso e multisfaccettato tra loro». E questa è oggi una questione fondamentale. E tuttavia, dopo un’apertura sull’autismo, Bella si sofferma sui casi, descritti nelle cartelle di S. Servolo, del sacerdote Giovanni Rampin (1818-1884) e dell’avventuriero professore di lingue Samuele Mendel(1831-1908). La follia morale (una diagnosi frequente ai loro tempi) di questi due interessanti personaggi non ha nulla a che fare con l’autismo, ma pone la stessa questione, quella delle tecniche di produzione della verità (p. 110). In effetti, vista la dimensione storica di transitorietà e di costruzione sociale di molte patologie psichiatriche c’è da chiedersi se tra cinquant’anni si parlerà ancora di autismo e di spettro autistico o se saranno sopravvenute nuove definizioni, nuove etichette e nuovi cataloghi. Secondo Bella «…l’autismo e la follia morale, in quanto disabilità relazionali, presentano le medesime questioni metafisiche ed epistemologiche in forme e realtà storiche molto diverse». (p.111)

Infine, mi sembra di dover richiamare quella che anche oggi è una prospettiva che, mutatis mutandis, incombe sulle famiglie: «L’assistenza familiare ai malati di mente venne sostenuta durante l’inchiesta sui manicomi italiani, condotta da Cesare Lombroso e Augusto Tamburini nel 1891 in vista di una futura riforma volta a far fronte allo stato di sostanziale degrado in cui versavano i manicomi italiani. […] Tra le problematiche ravvisate dall’inchiesta vi era quella dell’accumulo enorme e sempre crescente di pazzi; tra questi, quelli buoni, tranquilli e idioti, si sarebbero potuti collocare–secondo Lombroso e Tamburini–presso la propria o l’altrui famiglia dietro elargizione di sussidi.» (B. Catini, p. 53, nota 13).


Mio figlio è autistico

24/10/2013

copmiofiglio

Quel particolare insieme di libri sull’autismo che è il gruppo dei libri scritti da genitori si arricchisce continuamente di nuove opere. Sono opere in cui solitamente prevale l’aspetto della testimonianza, con un risvolto affettivo molto marcato, sia che si ponga l’accento sulle sofferenze e sulle difficoltà, sia che si voglia enfatizzare l’affetto che il genitore nutre per il figlio disabile, fino a  giungere in certi casi a considerare la disabilità del figlio un dono del cielo, uno strumento della propria auto-realizzazione. Si tratta dunque di un gruppo molto eterogeneo, sia dal punto di vista della qualità della scrittura, sia da quello della natura della testimonianza resa, sia infine da quello della competenza sull’autismo in generale posseduta dagli autori. L’ultimo libro di Gianfranco Vitale, Mio figlio è autistico (Vannini 2013), all’interno del gruppo in questione occupa un luogo eminente. Il libro è una testimonianza ampia, sostenuta da un patrimonio di conoscenza, esperienza e riflessione accumulato nel corso dei trent’anni di vita del figlio, Francesco, che insieme al padre è il protagonista della vicenda. E non è una testimonianza come tante, perché Vitale si confronta con le strutture sociosanitarie e i loro deficit culturali sull’autismo, con le associazioni e le loro prassi (o disprassie), con le cooperative e le comunità: insomma, con tutto il milieu che ben conoscono i genitori di una persona con autismo che passa attraverso l’infanzia, l’adolescenza e la prima età adulta, imbattendosi in una serie di crescenti incomprensioni del suo modo di essere e delle sue esigenze, per arrivare a sperimentare una vera e propria negazione della sua vita, come dice il sottotitolo del libro. È anche una testimonianza che manifesta una buona qualità narrativa, tanto da risultare una sorta di romanzo-verità.

Il libro pone una questione radicale. Quando, infatti, si può dire che una vita umana sia negata? Può essere negata come pura e semplice vita, quando l’essere umano viene ucciso, ma può essere negata anche come umana, quando viene privata di ciò che rende umana una vita, ad esempio eliminandovi qualsiasi traccia, anche la minima, di esperienza della libertà. Può essere negata come umana anche mediante il non riconoscimento delle esigenze singolari connesse ad un modo di essere dell’umano, di questo concreto essere umano, il non riconoscimento della sua specificità irriducibile, dei suoi codici e delle sue limitazioni essenziali.  Questo è il tipo di negazione della vita che hanno subito e continuano a subire, giunte all’età adulta, molte delle persone cui è stata applicata l’etichetta dell’autismo. Soprattutto quelle che appaiono più gravi, che hanno un ritardo cognitivo, che non parlano o presentano forti limitazioni nel linguaggio, che manifestano problemi comportamentali e non sono in grado di vivere negli ambienti sociali consueti, e meno che mai di condurre una vita indipendente. Rinchiusi negli istituti, senza spazi adeguati e possibilità di movimento, e senza stimoli che li aiutino ad uscire dalle loro stereotipie, costoro vegetano in uno stato di sedazione permanente, mentre i loro organismi devono smaltire dosi quotidiane di farmaci di ogni genere. Finiscono per vivere una vita larvale, spettrale, priva di dignità e di senso. Quella del senso, della sua attribuzione e condivisione, che nell’autismo è il problema fondamentale, nelle istituzioni che si occupano di autismo rimane una domanda che non solo non trova una risposta, ma che non viene neppure adeguatamente formulata. Questo anche per il semplice fatto che le istituzioni che si occupano di persone con autismo hanno dell’oggetto della loro attenzione, cioè dell’autismo stesso, una conoscenza superficiale, precaria, e qualche volta del tutto priva di fondamenti.

Quello di Vitale è il libro di un padre. Qui, a differenza di quel che avviene nella maggior parte delle famiglie in cui entra l’autismo, è la madre ad essere latitante, ad essere inadeguata anzitutto davanti alla necessità di comprendere l’autismo del figlio, e quindi il figlio stesso. Il padre qui prende sulle spalle il figlio – è l’inverso di Enea -, ma il suo lungo cammino non sembra godere della protezione di una dea. Una fatica immane, con momenti di felicità, ma soprattutto con grandi angosce, sofferenze e incomprensioni da parte di chi dovrebbe comprendere e aiutare. Il messaggio infine è chiaro: anche a parità di risorse impiegate, la vita dei soggetti autistici potrebbe essere molto più umana e ricca di senso se la conoscenza dell’autismo in coloro che operano, a tutti i livelli, con le persone con autismo fosse maggiore. Se non si coglie l’autismo dall’interno, ogni sforzo sarà vano, e le vite delle persone con autismo continueranno ad essere negate. Quella del libro di Vitale è una grande lezione, che dovrebbe essere fatta ampiamente conoscere.


Addetti all’assistenza

18/09/2013

A bambini e ragazzi autistici nella scuola vengono assegnati insegnanti di sostegno e addetti all’assistenza. Mentre i primi sono dipendenti del Ministero della Pubblica Istruzione, i secondi vengono assegnati dal Comune o dall’ULSS, a seconda del luogo. In genere si tratta di “dipendenti” di cooperative, che possono essere più o meno serie, più o meno preparate. E possiamo affermare che in genere, con qualche rara eccezione, la preparazione in materia di autismo di queste cooperative lascia alquanto a desiderare.
Il bambino o ragazzo con autismo, soprattutto se a basso funzionamento e con altre problematiche in aggiunta, per poter essere integrato nella vita scolastica nella misura delle sue possibilità e nel rispetto della sua persona, richiede un grande impegno, una grande competenza ed una reale disponibilità alla sinergia tra tutte le forze in campo, dalla dirigenza scolastica alla famiglia. E’ dunque chiaro che, essendo fondamentale anche il suo ruolo, all’addetto all’assistenza – che nella scuola trascorrerà molte ore col soggetto autistico – è richiesta una serie di competenze. E anzitutto deve avere una buona formazione sull’autismo, altrimenti la sua opera, nonostante la buona volontà, potrà avere risultati nulli o negativi, e si sarà persa una ulteriore occasione di crescita e miglioramento.
Sempre, ma in particolare nella circostanza in cui lo studente autistico si trovi a cambiare scuola, insegnanti, e personale che si occupa di lui, l’addetto dovrà quindi essere designato per tempo, in modo che all’inizio dell’anno scolastico abbia potuto già acquisire tutte le informazioni disponibili sulla particolare persona con autismo su cui dovrà operare, sulla sua carriera scolastica, sulle caratteristiche psicologiche e comportamentali, sui problemi di gestione della vita quotidiana, ecc. Queste informazioni non possono ridursi a qualche foglio scritto, magari passato all’ultimo momento, come un fucile messo in mano al fantaccino gettato in prima linea come carne da cannone: l’addetto all’assistenza dovrà essere messo in contatto con l’insegnante di sostegno, con l’addetto all’assistenza che ha seguito il bambino o ragazzo negli anni precedenti, e con la famiglia. La buona sinergia richiede che non vi siano compartimenti stagni: solo una reciproca apertura e disponibilità alla circolazione delle informazioni e delle pratiche può favorire processi di integrazione reali. Il caso in cui – poniamo come possibile esempio negativo – la cooperativa che per anni ha fornito addetti all’assistenza di un soggetto autistico, e che ben conosce quindi le sue caratteristiche e necessità, nel momento in cui quel soggetto passa dalle medie alle superiori, all’inizio delle lezioni si trovasse a non avergli ancora assegnato un operatore ben formato e informato, quella cooperativa sarebbe, diciamo, reprensibile. Credo che su questo punto nel nostro Paese le retoriche buonistiche siano molto lontane dai fatti di tutti i giorni, e dalle immense difficoltà vissute nella scuola dalle persone con autismo e da chi si deve occupare di loro.


Documento del Comitato Nazionale per la Bioetica

07/08/2013

logo_cnb.gif

Il Documento del Comitato Nazionale per la Bioetica che è appena uscito, intitolato Disabilità mentale nell’età evolutiva: il caso dell’autismo, è ricco e interessante, e solleva molte questioni. Fin dal titolo, che sembra ancora una volta limitare il fenomeno dell’autismo all’età evolutiva. Su questo testo ci sarà da ragionare a lungo. Intanto una citazione:

«I problemi bioetici che riguardano la condotta di chi opera nell’ambito della cura delle persone con autismo si porranno in modo diverso a seconda dell’entità del disturbo, della presenza o meno del ritardo mentale e della sua misura, della compresenza di altre patologie. Un esempio evidente è il modo differente in cui si configurerà il consenso informato a seconda dell’età e della capacità di intendere e di volere. D’altra parte,se allo stato attuale non c‟è un farmaco che “curi” l‟autismo, vi sono tuttavia dei farmaci che permettono con la loro azione una modifica di comportamenti a rischio-o di disturbo-per il soggetto e per chi gli sta accanto. Ciò pone il problema della valutazione di quanto e come tali farmaci siano da usare “per il bene del paziente”, valutando costi e benefici per lui, e tenendo presenti anche le sofferenze e i benefici di chi se ne prende cura quotidianamente. In ultimo, l’incertezza su quale sia il trattamento più efficace, capace di portare non alla guarigione, ma ad un miglioramento della sindrome, rende difficile realizzare il diritto della persona con autismo o, per lui, dei suoi genitori, ad essere informati sulle diverse opzioni e di scegliere liberamente e consapevolmente.»
Documento del CNB, p. 41


Ambiente ecologico

02/05/2013

IMG_0718

Ludovico ai fornelli. L’abilitazione delle persone con autismo, rispettosa delle caratteristiche di ciascuno e delle sue potenzialità, deve avvenire in ambiente ecologico, cioè tale da riflettere la strutturazione della vita quotidiana. È quel che si cerca di fare all’Orto di San Francesco.


Individualismo della speranza

30/04/2013

AT

Nei decenni scorsi le associazioni dei familiari delle persone con autismo hanno svolto un ruolo decisivo nella grande svolta che si è operata in tutti i Paesi del mondo: una svolta culturale, che ha avuto come suo centro il crollo della visione psicodinamica-psicoanalitica dell’eziologia dell’autismo, inteso come condizione instaurata nel bambino dal rapporto istituito con lui dalla madre. Al crollo di questa visione, col contemporaneo affermarsi di un approccio scientifico e neurobiologico, si è accompagnata l’affermazione di trattamenti cognitivo-comportamentali della sindrome come l’unica via percorribile. Le associazioni dei familiari possono vantare grandi meriti in questa rivoluzione. E tuttavia noi oggi constatiamo come le famiglie giovani con bambini autistici fatichino molto ad aderire alle associazioni, a lavorare in collettivo. Esse tendono piuttosto a restringere la visione del problema autismo al trattamento hic et nunc del loro figlio, a non porsi la questione della futura età dell’adolescenza e della fase successiva. I genitori giovani subiscono da un lato il prevalere di una impostazione meramente tecnicistica (di qui tutte le rivendicazioni e le discussioni sull’ABA fatto così o cosà, ecc.), dall’altro l’assenza di proposta di prospettive a lungo termine da parte dei sistemi socio-sanitari. È anche una mancanza di responsabilità: neuropsichiatri, psicologi ecc. dovrebbero spiegare molte cose alle famiglie, e non lo fanno a sufficienza, molto spesso non lo fanno per nulla. Tra le cose che dovrebbero spiegare è questa: i casi di sicura uscita dalla condizione autistica da parte di individui realmente autistici sono alquanto rari, solitamente chi è autistico da bambino, per quanti miglioramenti abbia realizzato, resterà una persona con autismo, e per questo è necessario che per lui si prepari un percorso di vita adeguato. Ma la naturale tendenza delle famiglie giovani è quella di sperare, sperare, sperare. La speranza non va abbattuta, ma va regolata e razionalizzata. Se alimentata indiscriminatamente, porta all’isolamento delle famiglie, all’individualismo delle “soluzioni”, e all’impossibilità di mantenimento di un fronte comune rispetto alle istituzioni. Purtroppo, in un Paese le cui tendenze familistiche e particolaristiche sono davanti agli occhi di tutti, la coesione dei genitori nel comune impegno a difesa delle persone con autismo è un obiettivo difficile da attingere.


La barbarie di Barbarano

16/04/2013

20660400_BG3 (1)

Sono passati pochi giorni, e dei gravi fatti di Barbarano in provincia di Vicenza non parla più nessuno. Un ragazzo autistico di 14 anni veniva seviziato dentro la sua scuola dalla sua insegnante di sostegno e dall’addetta all’assistenza. Per la verità, i media nazionali hanno quasi ignorato l’episodio: i disabili interessano poco, se non sono delle star, e delle loro tragedie importa poco anche a quelli che si riempiono la bocca di parole magiche come integrazione. Avanzo qualche considerazione.

  1. In tema di disabilità, il divario tipicamente italiano tra parole e fatti assume proporzioni spaventose. Tuttavia, vi sono casi come questo in cui nemmeno le parole vengono spese.
  2. Le parole non vengono spese da media e politici, con qualche piccola eccezione, perché i fatti di Barbarano evidenziano come l’integrazione scolastica delle persone autistiche faccia acqua da tutte le parti. In questi tempi tutto ciò che potrebbe evocare un aumento di costi viene eluso, marginalizzato o ignorato totalmente. E un miglioramento delle condizioni di vita degli autistici a costo zero è impensabile.
  3. Nella scuola non si è attrezzati, manca un orientamento chiaro e condiviso, il personale non è preparato, gli insegnanti di sostegno sono spesso del tutto privi di preparazione specifica. Ma non vengono verificate nemmeno le loro qualità semplicemente umane. Per questo, penso che non si debba assumere nei confronti delle due seviziatrici un atteggiamento di puro linciaggio, anche se la violenza non può trovare alcuna scusante. Certamente avevano ricevuto un caso difficile, e non sono riuscite a reggere lo stress. Ma chiaramente sono colpevoli: dei loro atti, e anche di non aver dichiarato la propria inadeguatezza, di non aver chiesto aiuto, ecc. E gli altri insegnanti della classe? Che integrazione era mai quella?
  4. Le qualità semplicemente umane, tuttavia, non sono nemmeno radicate nella pubblica opinione italiana. In un Paese in cui vi fosse un qualche senso morale diffuso e condiviso, l’episodio sarebbe rimbalzato ovunque nei media, suscitando l’indignazione dell’intera Nazione: invece niente.
  5. Più sei debole, più sono deboli le reti di protezione che ti dovrebbero salvaguardare e aiutare. Un ragazzo con autismo del tutto averbale, non in grado di spiegare ai suoi genitori l’origine delle contusioni e delle ferite, è un soggetto debolissimo, del tutto in balia degli altri, privo di ogni difesa.
  6. È evidente come il termine “autismo” funzioni malissimo dal punto di vista comunicativo, dal momento che la gente sente chiamare “autistico” il ragazzo vicentino che non sa dire una parola, e sente definire “autistico” un genio come Einstein. Mentre la parola “down” funziona benissimo, e tutti capiscono di cosa si stia parlando. Nella società della comunicazione, questo non è un problema di lana caprina. E’ IL problema.