Autismo e relazione

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Un librettino di 97 pagine, note comprese, è questo Autismo e relazione (Mimesis 2013), in cui la psicoanalista Marta Tagliabue ci presenta la sua visione dell’autismo, fondata su una serie di letture e sull’esperienza fatta con una bambina autistica, Sara. Il testo è interessante per chi come me è attento ai tentativi che la psicoanalisi opera per autogiustificarsi nei confronti di una realtà psichica circa la quale essa ha commesso il suo errore più clamoroso. Sono tentativi quasi commoventi, a volte. Marta Tagliabue dimostra un’apprezzabile apertura mentale, per alcuni aspetti, rispetto allo standard medio degli psicoanalisti, ma ovviamente il suo libro soffre del difetto capitale di fondare il discorso sull’autismo sopra una relazione con una sola persona autistica.

In un qualche modo, potremmo ricondurre la prospettiva cui approda la Tagliabue–occorre accettare l’essere autistico della persona con autismo come il suo proprio modo di essere e di relazionarsi al mondo, e non tentare in tutti i modi di portarla al nostro neurotipico modo di essere e di relazionarci al mondo–a quella portata avanti dai movimenti di auto-advocacy, di affermazione della neurodiversity ecc., che si vanno affermando negli USA.

«Per prima cosa, secondo me, il genitore deve fare i conti con l’ideale di figlio che aveva immaginato e che non corrisponde con il bambino che ora si trova davanti. Il grande rischio che può incorrere [sic] è quello di iniziare una battaglia cercando di aiutare il figlio, con ogni mezzo, e partendo da quello che lui ritiene essere il meglio, volendo cambiarlo e renderlo il più vicino possibile a quello che lui ha in mente come “normalità”. Perdendo di vista, in tutto questo, il modo di essere del bambino e non riuscendo a stare nel qui e ora della relazione.» (p. 90)

Questa affermazione può sembrare banalmente sensata. Ma il problema della maggioranza dei genitori con figli autistici gravi oggi non è tanto quello di riuscire ad accettare la diversità del figlio, bensì quello di sopravvivere essi stessi al peso derivante da questa formidabile diversità, e di riuscire a dare ai figli qualche possibilità di vita umana in un contesto sociale per il quale non sono minimamente attrezzati. Del resto, il concetto stesso di accettazione non è così luminoso e lineare come potrebbe sembrare immediatamente, ma può essere ambiguo, e spesso può intersecare quello di rassegnazione.

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